Nebraska
Alexander Payne - b/n USA 2013 -  2h 1'

Miglior interpretazione maschile a CANNES 66


   Torna Alexander Payne, il regista di Sideways, A proposito di Schmidt, Paradiso amaro, con il suo humour crudele e insieme capace di incredibili chiaroscuri, come se disegnasse i personaggi col carboncino. Torna il sarcastico ma pietoso cantore di quelle vite comuni e forse sprecate, il regista che più di chiunque ha lavorato sul sentimento subdolo e oggi così diffuso dell'irrilevanza, della mancanza di senso, della piattezza che da un momento all'altro rischia di inghiottire vite, affetti, ricordi, orizzonti. Torna il suo sguardo divertito e insieme stupito sugli angoli più anonimi dell'America (perfino le Hawaii di Paradiso amaro concedevano ben poco alla bellezza dei paesaggi). Come se solo abolendo ogni seduzione visiva, e smascherando la retorica sempre in agguato dietro il bello come dietro il brutto e l'insignificante, potesse abbattere le ultime difese dei suoi personaggi, sempre così inermi e disperati da risultare familiari e addirittura irresistibili. Anche se la gabbia formale in cui li costringe diventa sempre più evidente film dopo film. Bianco e nero, inquadrature semplici ma studiate al millimetro, attori meravigliosi ma indiscutibilmente attori. Alle prese con dialoghi sapienti e spesso esilaranti che sono il suo marchio e mettono a nudo senza riguardo debolezze e illusioni. Il tutto per far emergere poco a poco la catena infinita di errori, omissioni, incomprensioni, rancori, e malgrado tutto questo di indefettibile affetto, che lega i membri di una famiglia e in particolare un figlio a suo padre. Un vecchio svanito (magnifico Bruce Dern, premiato a Cannes), convinto di aver vinto la lotteria, che vuole andare dal Montana a Lincoln, Nebraska, passando per la sua sperduta città natale, abbandonata tanti anni prima per incassare il suo milione di dollari. E ci andrà scortato da David (Will Forte), il figlio sensibile. (...) Un bellissimo film sul tempo, a ben vedere. Il tempo che passa mentre il passato non se ne va e i conti restano in sospeso, le vecchie ferite anche se invisibili sono sempre aperte. Ma il tempo al cinema si racconta con lo spazio. E Payne usa a meraviglia i grandi spazi vuoti dell'America profonda, le case di legno che si stagliano contro i vasti paesaggi vuoti, gli edifici bassi di quelle piccole città senza storia. Pagine quasi bianche su cui scrivere l'ultimo capitolo di una vita ancora da raccontare, prima che sia troppo tardi. Con tenerezza e ferocia, schivando il pathos ma anche l'irrisione. Come merita quel padre che il figlio forse non avrebbe mai pensato di conoscere tanto da vicino.

Fabio Ferzetti - Il Messaggero

   Tornando per la quarta volta a casa, nel Nebraska, Alexander Payne, il miglior regista di perdenti su piazza, ci racconta una storia on the road ma intimista, scritta da Bob Nelson, soffusa, fatta di niente e di tutto, con importanti pause, con l'insegna al neon psicologico della malinconia (ma anche melanconia). Al centro del film, bello e struggente (ricorda il Lynch di Una storia vera), un rapporto andato a male tra padre e figlio, un vecchio beone che parte a piedi dal Montana per ritirare l'inesistente premio di una Lotteria: il figlio per pietas gli dà un passaggio a colmare silenzi, apatie, vuoti del passato. Tipico della cultura americana (basti pensare al Miller del Commesso viaggiatore), l'incontro scontro tra due generazioni andrà a buon fine, mentre la situazione si evolve nel più assoluto, grottesco cinismo, quando il nostro all'ultimo incontra i vecchi amici tronfi di squallore e parenti serpenti pronti a rapinargli la presunta vincita. Tappe molto «made in Usa», dal saloon alla zuffa al cimitero di Spoon River, infine dopo 2000 km. ritorno a casa, missione affettiva compiuta. Nel Midwest americano, un deserto psicologico, sembra di sentire le ballate di Guthrie, i song di Springsteen o vedere quel capolavoro che era L'ultimo spettacolo di Bogdanovich cui lo unisce la scelta stilistica e morale di un magnifico bianco e nero: una fotografia da Oscar di Phedon Papamichael che recupera il valore della memoria delle storie e della Storia come fossimo nei paesaggi rurali di Faulkner. Payne, cecoviano stilista interiore di uomini in panne, narratore di torti quotidiani e dissolvenze di famiglia, prende per mano il 77enne Bruce Dern, grande dell'America '70 (Tornando a casa, Complotto di famiglia, Non si uccidono così anche i cavalli?), e lo riporta in vetta con un'interpretazione di rara sensibilità che lo riscatta dall'aver sparato alle spalle a John Wayne nei Cowboys. Strepitosa anche l'interpretazione del figlio Will Forte che esprime al meglio l'anonimato 40enne e la pulsione piccolo borghese.

Gian Luigi Rondi - Il Tempo

   Da tempo aspettavamo Alexander Payne al grande film, dopo una serie di prove convincenti, anche entusiasmanti, ma sempre nell'ordine del «piccolo film d'autore indipendente». A proposito di Schmidt (con un notevole Jack Nicholson) e il delizioso Sideways (che ha creato un significativo fenomeno di cine-turismo nelle zone vinicole della California) erano tappe di una crescita artistica ineccepibile. Paradiso amaro era invece, a nostro parere, una pausa di riflessione, anche se lavorare con una star come George Clooney e guadagnarsi cinque candidature all'Oscar (di cui uno vinto, per la sceneggiatura) ha dato comunque a Payne una credibilità consolidata all'interno dell'industria hollywoodiana. Dal punto di vista delle majors il regista, dopo quell'ultimo film, era maturo per gestire qualunque progetto con attori di gran nome. E lui che ha fatto? E' tornato nel natio Midwest, ha scelto come titolo il nome dello stato in cui è nato (Payne è di Omaha, Nebraska, come Fred Astaire, Marlon Brando e Montgomery Clift: aria buona, da quelle parti) e ha girato un film in bianco e nero senza attori di nome, affidando a un comprimario di lusso come Bruce Dern un ruolo per cui diversi divi erano pronti a vendere la mamma su e-bay (la Paramount, per la cronaca, voleva Gene Hackman o Robert De Niro o Robert Duvall o Jack Nicholson...). Risultato? Il capolavoro che attendevamo! Nebraska ricorda, per molti versi, lo splendido Una storia vera di David Lynch, il film più «semplice» e lineare di quel regista altrimenti labirintico e misterioso. Anche là veniva ripescato un caratterista storico, Richard Farnsworth, dandogli finalmente quel ruolo da protagonista che Hollywood - molto crudele, quando incasella le persone - gli aveva sempre rifiutato. Dern ha avuto comunque una carriera gloriosa, è stato diretto fra gli altri da Pollack, Rafelsonfilm precedente in archivio e Hitchcock, ma un personaggio come quello di Woody Grant vale tutta una vita. (...) il film diventa una ricostruzione del rapporto padre-figlio (quest'ultimo, brillantemente interpretato da Will Forte). Roba già vista, ma sempre bella da vedere, soprattutto sullo sfondo dei paesaggi americani e nel formato più commovente che il cinema abbia mai inventato: schermo panoramico e fotografia in bianco e nero, a cura di Phedon Papamichael... ovvero di un greco, nato ad Atene ne11962 ma cresciuto in America dove ha avuto come mentore un altro greco di talento, John Cassavetes. Come vedete, tutto congiura perché Nebraska sia un consapevole omaggio al grande cinema americano degli anni '70, come già - in tempi recenti - 'Argo' e 'American Hustle'. E tra questi, forse, è il migliore. Non perdetelo.

Alberto Crespi - L'Unità


promo

Woody Grant (Bruce Dern), un irascibile uomo anziano che ha allontanato tutti dalla sua vita, è convinto di aver vinto un milione di dollari grazie a un concorso a premi di una rivista. Per reclamare il premio, il figlio David (Will Forte) accetta con molta riluttanza di accompagnarlo da Billings, dove vivono, fino a Lincoln, nel Nebraska. Durante il viaggio lungo le strade degli Stati Uniti, si fermeranno nei posti che hanno segnato la vita di Woody. Tra recriminazioni, incontri con il resto della famiglia e con un vecchio socio in affari, padre e figlio impareranno a conoscersi e a mettere da parte le ostilità accumulate negli anni... Alexander Payne realizza un'altra di quelle sue commedie dolce-amare che riflettono sulla natura complessa dei legami parentali e sulla evanescente sopravvivenza del passato nel presente: il tutto nella cornice della profonda America delle praterie che la crisi economica ha reso ancora più desolata. Un piccolo gioiello in bianco e nero, malinconico, ironico.

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 LUX - febbraio 2014

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