The Tree of Life
Terrence Malick
- India/Gran Bretagna 2011 - 2h 16'

Palma d'Oro


 

   Forse non si può capire ed amare The Tree of Life fino in fondo, ma è impossibile non percepire l’originalità, la forza figurativa e la tensione spirituale che raramente vibrano con tale intensità in un’opera cinematografica. Il quinto film in trentott’anni anni di film precedente in archivio Terrence Malick film successivo in archivio, dopo il fulgido esordio di La rabbia giovane (1973) e affreschi-capolavoro come I giorni del cielo (1978) e La sottile linea rossa (1998), lascia ammaliati e annichiliti, spaesati al cospetto della magnificenza delle immagini e dell’ermetico fluire narrativo.
The Tree of Life
, meraviglioso  e imperfetto, s’inchina alla possanza dell’universo, tratteggia con ineguagliabile sensibilità le psicologie e le dinamiche di una famiglia americana nel Midwest anni ’50. Ed è il come che lascia esterrefatti. Lo schermo ad un tratto implode in folgoranti immagini naturalistiche: dal magma incandescente dei vulcani al pulsare marino delle meduse, dal formarsi delle cellule al fluttuare della galassia.

Bagliori e spettri cromatici, macrofotografia ed effetti speciali per dare concretezza visiva alla creazione del cosmo; oltre quindi minuti di un caleidoscopio esistenzial-creazionistico, di un pattering mistico-metafisico che coniuga Stanley Kubrick (2001 Odissea nello spazio) e Godfrey Greggio (Koyaanisqatsi)!
La congiunzione con il nucleo della famiglia O’ Brien (madre amorevole e benevola, padre severo e insoddisfatto) trova compiutezza nell’interpretare quest’ultima come “nucleo simbolico del mondo”, nel raccordarsi con gli eventi topici del vivere umano: la nascita di un bambino (quel pedino di un neonato incorniciato tra due mani d’adulto!), la perdita di un figlio racchiusa in una lettera “di morte” che non dà spiegazioni allo spettatore ma mette con immediatezza in scena lo strazio di genitori…


Il corpo di The Tree of Life si sviluppa nelle scene di vita quotidiana di Brad Pitt e di Jessica Chastain e dei loro tre figli che riempiono lo schermo dei giochi infantili, dei dispetti adolescenziali, delle tensioni e delle dolcezze dei rapporti interfamiliari. Di quei ragazzi è su Jack che si ferma lo sguardo di Malick (di quello che morirà individuiamo solo vagamente la personalità in quella chitarra rimasta senza padrone) ed è lui che ritroviamo da adulto (Sean Penn), tormentato e perplesso nella giungla architettonica della metropoli; attonito, come noi, di fronte al contrasto tra l’intarsio avvolgente della natura (per lui coscienza interiore, per noi allucinazione cinematografica) e quello abbacinante e algido delle vetrate e delle luci tra i grattacieli. A lui è affidato il finale iper-reale (un’ulteriore parentesi metafisica) con tutti i protagonisti che si ritrovano in un paesaggio che si trasforma da distesa desertica a litorale marino, sulla cui spiaggia vivi e morti convergono per un abbraccio mistico di pace e serenità.

Nell’arco di oltre due ore di intima narrazione e di poetica rappresentazione Malick si erge stilisticamente lontano non solo della piattezza televisiva, ma anche dal linguaggio classico del cinema, ricorre senza imbarazzo ad un uso ridondante di suoni evocativi e musiche solenni ed evolve il suo teorema antropologico-panteistico focalizzandosi sulla dicotomia Grazia-Natura (l’una “non si occupa di se stessa”, è amore e donazione; all’altra piace “fare a modo suo”, “trova ragioni di infelicità” nel non accettare l’ordine delle cose), sull’escatologico rispetto di un progetto divino (“…dov'eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra?” recita la didascalia iniziale tratta da Giobbe). E, su tutto, resta l’emozione del percepire la sconvolgente personalità della sua dialettica cinematografica, del non riuscire ad estraniarci da come, in apertura, si dipani, con avvolgente naturalezza, il dramma della perdita di una persona cara, da come la macchina da presa stia addosso a quei genitori straziati, li accompagni nell’intensità del loro dolore (“il dolore passa…” “io non voglio che passi”), faccia scaturire dal vuoto tra gli oggetti l’assenza/presenza di quello che è venuto a mancare…. Il respiro cinematografico di Malick ci concede una rara esperienza da spettatori, avvinti dalla commossa veridicità di quella voce narrante, dalla luce “naturale” di quello schermo che diventa specchio dell’anima.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  29 maggio 2011

 

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Il quinto film in trentott’anni anni di Terrence Malick è meraviglioso e imperfetto, s’inchina alla possanza dell’universo, tratteggia con ineguagliabile sensibilità le psicologie e le dinamiche di una famiglia americana nel Midwest anni ’50. Ed è il come che lascia esterrefatti. Lo schermo ad un tratto implode in folgoranti immagini naturalistiche: dal magma incandescente dei vulcani al pulsare marino delle meduse, dal formarsi delle cellule al fluttuare della galassia...
La congiunzione con il nucleo della famiglia O’ Brien (madre amorevole e benevola, padre severo e insoddisfatto) trova compiutezza nell’interpretare quest’ultima come “nucleo simbolico del mondo”: forse non si può capire ed amare The Tree of Life fino in fondo, ma è impossibile non percepire l’originalità, la forza figurativa e la tensione spirituale che raramente vibrano con tale intensità in un’opera cinematografica. Il respiro cinematografico di Malick ci concede una rara esperienza da spettatori, avvinti dalla commossa veridicità di quella voce narrante, dalla luce “naturale” di quello schermo che diventa specchio dell’anima.


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