La finitezza della vita e l’immortalità del cinema. Nel ciclico
ricompiersi di questo indomabile ed eterno assioma viene
definitivamente inibita, di volta in volta, l’implicita, cinefila
aspettativa di rivedere, riconsiderare, ridisporre il progressivo
percorso autoriale di un creatore della storia del cinema. Ed
Eric Rohmer
è davvero un testimone centrale nella formazione dell’arte
cinematografica, un elemento libero da stilemi precostituiti - e già
per questo fondativo di un rinnovato discorso critico sul cinema - e
ancora di più, quell'elemento capace di caratterizzare il suo tempo
e testimoniare unìepoca, senza prostrarsi ad alcun adeguamento
modernista che non fosse derivato dalla personale visione liminare
del filmabile. Eric Rohmer (nome d’arte di Jean Marie Maurice
Schérer) il 4 aprile del 2010 avrebbe compiuto 90 anni. È stato uno tra i
più significativi maestri della Nouvelle Vague, nonché il componente
più anziano dello storico gruppo dei Cahiers du Cinéma.
Docente di letteratura, nel 1948 inizia a collaborare come critico
cinematografico con diverse riviste: redattore de La revue du
cinéma, Les Temps Modernes, La Parisienne, Arts.
Nel 1950 fonda e dirige La Gazette du Cinéma, il bollettino
del cineclub del quartiere latino di Parigi in cui si ritrovavano
Godard, Rivette, Truffaut,
Chabrol. Questa esperienza anticipa la
nascita nel 1951 della celebre rivista dei Cahiers du Cinéma
di cui Rohmer fu caporedattore dal 1957 al 1963. Nel 1957 è autore
assieme a Claude Chabrol di un saggio sul cinema di
Alfred Hitchcock,
e proprio dall’analisi meticolosa su questo cineasta si costituirà
parte della formulazione estetica e formale della successiva
produzione cinematografica di Rohmer.
Nel 1959 scrive e dirige
Il segno del leone (Le signe du lion), il
lungometraggio d’esordio, prodotto dal collega Chabrol. Il film non
trova però una distribuzione, ed esce con basso consenso solo tre
anni più tardi, nel 1962, anno in cui avvia con l'amico Barbet
Schroeder la casa di produzione Les Films du Losange, tuttora
esistente, con la quale realizzerà gran parte delle sui progetti
futuri. Nello stesso anno prende vita il primo ciclo di film
denominato
Sei racconti morali
(Six contes moraux) che
comprende La fornaia di Monceau (La boulangère de Monceau,
1962), La carriera di Suzanne (La carrière de Suzanne,
1963), La collezionista (La collectionneuse, 1967),
La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud, 1969), Il
ginocchio di Claire (Le genou de Claire, 1970),
L'amore il pomeriggio (L'amour l'après-midi, 1972). Già
con il primo film e il ciclo dei racconti morali si viene a
profilare nettamente la dimensione di uno stile inconfondibile e la
caparbia leggiadria del tocco narrativo incentrato nell’affrontare
scrupolosamente i processi dell’animo umano, i turbamenti
sentimentali di fronte a scelte morali e la dialettica tra ragione e
passione. Inoltre, centrale il ruolo del caso, e la fatalità con cui
si risolvono gran parte delle scelte dei protagonisti, quasi a
turlupinare l'inane tentativo degli esseri umani di essere padroni,
controllori e decisori della propria vita. La funzione delle parole
nei film di Rohmer costituisce una vera e propria estetica della
significazione e della comunicazione segnica. E’ nell’incessante
scorrere dei dialoghi, e nella continua contaminazione tra
letteratura, teatro, filosofia, musica, pittura, sia essa sul piano
dell’espressione che su quello del contenuto, che si manifesta e si
consolida la delicatezza e la profondità dello sguardo rohmeriano.
L’estrema sintesi realistica di ogni suo film è frutto di
un’attenzione formale mai casuale: è così per ogni aspetto
dell’ambientazione - che richiama, racconta, racchiude il moto
sentimentale dei personaggi -, per i dettagli e la costruzione del
quadro, la voce narrante del protagonista maschile mutuata da uno
schema letterario, il ruolo dei personaggi femminili, mai
protagoniste ma, di fatto, sempre, l’elemento cardine di ogni
cambiamento ed emblema di complessità, furbizia, controllo, senza
per questo mancare di numerose contraddizioni.
In seguito ai Sei racconti morali Rohmer realizza due adattamenti
cinematografici da opere letterarie di ambientazione storica:
La
Marchesa von... (La Marquise d'O..., 1976, Premio speciale della
giuria al Festival di Cannes) da un racconto di Heinrich von Kleist
(Die Marquise von O, 1808) e
Perceval le Gallois (1978) dal poema medievale di Chrétien de Troyes.
Negli anni ’80 inizia il secondo ciclo di sei film,
Commedie e
proverbi (Comédies et proverbes) in cui l’autore per ogni titolo
prende spunto da un proverbio o da una citazione letteraria in
qualche modo legata ai temi poi trattati nei film: “Non si può
pensare a niente” (titolo di un’opera di Alfred de Musset, Non si
può pensare a tutto) per La moglie dell'aviatore (La femme de l'aviateur,
1981), “Chi non batte la campagna? Chi non si inventa castelli in
Spagna?” (motto di Jean de La Fontaine) per Il bel matrimonio
(Le beau mariage, 1982), “Chi parla troppo si danneggia” (motto di Chrétien de Troyes) per Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage,
1982, Orso d'Argento per la regia a Berlino), “Chi ha due donne
perde l’anima, chi ha due case perde il senno” (detto popolare) per
Le notti della luna piena (Les nuits de la pleine lune, 1984),
“Ah,
venga il tempo in cui i cuori s’innamorano” (verso di Arthur Rimbaud)
per Il raggio verde (Le rayon vert, 1986, Leone d’oro a Venezia),
“Gli amici dei miei amici sono miei amici” (proverbio) per L'amico
della mia amica (L'ami de mon amie, 1987).
Negli anni ’90 è la volta del terzo e ultimo ciclo, quello dei
Racconti delle quattro stagioni (Contes des quatre saisons):
Racconto di primavera (Conte de printemps, 1990),
Racconto d'inverno
(Conte d'hiver, 1992),
Un ragazzo, tre ragazze (Conte d'été, 1996),
Racconto d'autunno (Conte d'automne, 1998).
In mezzo all’ordinamento seriale dell’opera rohmeriana c’è spazio
per lungometraggi slegati da questa logica dispositiva, ma non per
questo lontani dallo spirito, dai temi, dal caratteri esclusivi di
questo regista: Reinette e Mirabelle (Quatre aventures de Reinette
et Mirabelle, 1987), L'albero, il sindaco e la mediateca (L'arbre,
le maire et la médiathèque, 1992), Incontri a Parigi (Les
rendez-vous de Paris, 1995),
La nobildonna e il duca (L'Anglaise et
le Duc, 2001),
Triple Agent - Agente speciale (Triple Agent, 2004),
Le canapè rouge (2005, inedito in Italia), Gli amori di Astrea e Celadon (Les amours d'Astrée
et de Céladon, 2007). Proprio in occasione della presentazione alla
Mostra del cinema di Venezia del suo ultimo film Rohmer diceva: “Io
mi considero tuttora un regista hitchcockiano. Ma cos’è Hitchcock,
se non un creatore di forme? Io non pretendo di creare forme alla
sua maniera. Però mi rendo conto che nei miei film sono sempre
presenti motivi geometrici”. E adottando proprio la struttura del
motivo è possibile percorrere l’intera filmografia di questo autore,
moderno ma teso al classicismo, che “senza alcun preconcetto, e
senza mai cadere nelle trappole di una modernità di facciata,
dell’adesione ad una ideologia troppo marcata, della tentazione di
fare moda o tendenza” è riuscito a catturare e suscitare la bellezza
del vero e del mondo. Motivi centrali come la fedeltà (La mia notte
con Maud, La collezionista, Racconto d’inverno, Le notti della luna
piena...), il movimento di attrazione-repulsione, la soddisfazione
del desiderio, l’erotismo sfiorato, l’intervento decisivo del caso,
costituiscono assieme la leggerezza e la sagacia dello sguardo e la
profondità del cinema di Eric Rohmer.: “Ciò che è importante al
cinema è che l’azione non si svolge solamente nello spazio
dell’inquadratura, ma può svilupparsi in uno spazio più vasto. E lo
spettatore, nel suo ricordo, ha l’illusione che le cose siano nello
stesso quadro”. E nella stessa intervista aggiunge: “ Non sono
determinista, non credo alla casualità, non cerco le cause. Mi
innervosisce un poco dire “questo fatto ha una causa”: perché ne
avrebbe una? perché bisogna assolutamente cercarne una? perché
bisogna assolutamente trovare una spiegazione? Non vedo le cose a
questo modo, vedo piuttosto le cose come tendenti verso la fine,
come in una storia. All’interno di tutto ciò, il cinema sfugge forse
alla casualità umana perché il cinema ci rinvia alla natura. A una
natura organizzata, a una natura orientata verso un fine. L’uomo non
è assolutamente padrone della sua materia, egli va in una certa
direzione ed è necessario che si lasci portare in questa direzione”.
L’infinita possibilità riproduttiva dell’immagine cinematografica
sarà l’unico rimedio alla consapevolezza della mancanza di un
maestro che - come scrisse Serge Daney - “ha saputo restare fedele a
se stesso ed attendere il momento in cui la sua evoluzione avrebbe
raggiunto quella del pubblico”.
Alessandro Tognolo |