giugno 2010

trimestrale di cinema, cultura e altro... ©

n° 28
Reg.1757 (PD 20/08/01)

     Ci siamo ancora? Sì! A quanti ci hanno scritto, preoccupati del nostro lungo silenzio stampa, rispondiamo qui in main-page, un po' frustrati dalle difficoltà che una testata completamente no-profit deve affrontare per sopravvivere. Questo numero doppio-triplo è il testardo tentativo di procedere in un'avventura editoriale che abbia un senso, che testimoni il presente della realtà culturale che ci circonda e che si sforzi di operare un lavoro di analisi e sintesi articolato ed originale. Poche digressioni quindi e un impatto diretto "a tutto cinema", dagli immancabili appuntamenti con TORINO Film Festival e con il FAR EAST di Udine, alle ultime due edizioni del nostro cinema invisibile, la prima aperta alla discussione sul  dialogo educativo di cui necessita urgentemente la martoriata scuola italiana, la seconda dedicata interamente ad Eric Rohmer. Il contributo ulteriore sviluppato in questo pagina di MC magazine è la premessa per un'indagine retrospettiva più ampia sul maestro francese scomparso nel gennaio scorso.

 

La 27°ventisettesima edizione del Torino Film Festival segna il cambio del vertice direttivo in seguito all’abbandono di conduzione da parte di Nanni Moretti. Al suo posto un altro cineasta fulcro di quel cinema italiano sempre più infrequente, e dunque pregiato, capace di unire nella messa in scena un’istanza autoriale elaborata e ricodificata attraverso l’assoluta forza passionale della visione accanita e accanitamente diretta del desiderio cinematografico. Fin da subito infatti Gianni Amelio, ponendo l’accento proprio sulla passione, identifica il carattere immanentemente incontrovertibile del festival torinese e un’assoluta linearità di intenti: “la differenza tra dirigere un film e dirigere un festival è solo tecnica: in un modo o nell’altro si fa cinema”.

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L’Oriente, con le sue contraddizioni che vedono convivere alta tecnologia e culti animistici, ritmi di lavoro stressanti e feste per la fioritura dei ciliegi, rimane un mondo in gran parte misterioso per noi Occidentali, che spesso ne abbiamo una percezione basata su pregiudizi e luoghi comuni, che vengono inevitabilmente contraddetti nel momento in cui ci avviciniamo realmente a quei popoli e a quelle culture. È  innegabile però il fatto che esso eserciti una grande attrazione soprattutto sui giovani, che non a caso, come sempre, hanno partecipato numerosissimi all’annuale appuntamento di Udine.
La dodicesima edizione del
FAR EAST Film Festival, svoltasi dal 23 Aprile al 1 maggio ha chiuso infatti con un bilancio record per quanto riguarda le presenze: più di 50 mila spettatori, con adesioni europee e internazionali. Se quest'anno la presenza di ospiti orientali, che contribuivano a dare un tocco di esotismo all’austera Udine, è stata sicuramente inferiore agli anni passati, a causa delle difficoltà di volare per l’eruzione del vulcano islandese, si è vista però un’invasione di giovani appassionati o studenti di cinema provenienti, oltre che da varie parti d’Italia, da Francia, Inghilterra, Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, che hanno seguito con entusiasmo le proiezioni e gli incontri.

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  Un breve ciclo che percorre lo spazio-scuola cinematografico cogliendo bagliori educativo-didattici che partono dall’ambiente ostile che accoglie il prof. Dadier in una High School degli slum newyorkesi (Il seme della violenza, 1955) per arrivare al sofferto inserimento di una ragazzina di modesta estrazione sociale in scuola media d’elite parigina (Stella, 2008). Nel mezzo la rivolta a colpi di mitra nell’austero, repressivo college inglese di Se..., la battaglia per l’emancipazione combattuta con la stessa tenacia in una cittadina ex-mineraria francese (Ricomincia da oggi) ed in un misero villaggio della Cina rurale (Non uno di meno), la rivisitazione fenomenologica ed estraniante del dramma nel liceo di Colombine (Elephant), la ricerca introspettiva con cui, in Freedom Writers, Erin Gruwell riesce a far uscire i suoi alunni dalla gabbia delle gang. >>

  Il potere della parola e la soave profondità della commedia umana. Il cinema di Eric Rohmer si può descrivere attraverso l'esemplare titolazione dei suoi cicli cinematografici: il ciclo della vita che si confronta necessariamente con un senso morale che scaturisce da riflessioni, dialoghi, esperienze attraverso una cultura letteraria e filosofica di cui l'essere umano è intriso, che permea il suo agire, che lo costringe ad interrogarsi sul senso del vivere, sulle contraddizioni sempre in agguato nella proverbiale complessità del presente... Ora che il vecchio cantore di Tulle ha deposto la sua elegante penna di sceneggiatore, scenografo, costumista, vogliamo recuperare il suo primo periodo, quello dei racconti morali,  forse meno conosciuto, ma già eloquente della sua capacità autoriale

di una lettura interiore mai banale, di un cinema amabilmente lento nel ritmo, estraniante nello stile, sobrio e stimolante nello scavo delle psicologie, tra il pulsare dell'inquietudine del singolo e lo stagnare dei rapporti interpersonali. >>

 

   La finitezza della vita e l’immortalità del cinema. Nel ciclico ricompiersi di questo indomabile ed eterno assioma viene definitivamente inibita, di volta in volta, l’implicita, cinefila aspettativa di rivedere, riconsiderare, ridisporre il progressivo percorso autoriale di un creatore della storia del cinema. Ed Eric Rohmer è davvero un testimone centrale nella formazione dell’arte cinematografica, un elemento libero da stilemi precostituiti - e già per questo fondativo di un rinnovato discorso critico sul cinema - e ancora di più, quell'elemento capace di caratterizzare il suo tempo e testimoniare unìepoca, senza prostrarsi ad alcun adeguamento modernista che non fosse derivato dalla personale visione liminare del filmabile. Eric Rohmer (nome d’arte di Jean Marie Maurice Schérer) il 4 aprile del 2010 avrebbe compiuto 90 anni. È stato uno tra i più significativi maestri della Nouvelle Vague, nonché il componente più anziano dello storico gruppo dei Cahiers du Cinéma. Docente di letteratura, nel 1948 inizia a collaborare come critico cinematografico con diverse riviste: redattore de La revue du cinéma, Les Temps Modernes, La Parisienne, Arts. Nel 1950 fonda e dirige La Gazette du Cinéma, il bollettino del cineclub del quartiere latino di Parigi in cui si ritrovavano Godard, Rivette, Truffaut, Chabrol. Questa esperienza anticipa la nascita nel 1951 della celebre rivista dei Cahiers du Cinéma di cui Rohmer fu caporedattore dal 1957 al 1963. Nel 1957 è autore assieme a Claude Chabrol di un saggio sul cinema di Alfred Hitchcock, e proprio dall’analisi meticolosa su questo cineasta si costituirà parte della formulazione estetica e formale della successiva produzione cinematografica di Rohmer.

Nel 1959 scrive e dirige Il segno del leone (Le signe du lion), il lungometraggio d’esordio, prodotto dal collega Chabrol. Il film non trova però una distribuzione, ed esce con basso consenso solo tre anni più tardi, nel 1962, anno in cui avvia con l'amico Barbet Schroeder la casa di produzione Les Films du Losange, tuttora esistente, con la quale realizzerà gran parte delle sui progetti futuri. Nello stesso anno prende vita il primo ciclo di film denominato Sei racconti morali (Six contes moraux) che comprende La fornaia di Monceau (La boulangère de Monceau, 1962), La carriera di Suzanne (La carrière de Suzanne, 1963), La collezionista (La collectionneuse, 1967), La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud, 1969), Il ginocchio di Claire (Le genou de Claire, 1970), L'amore il pomeriggio (L'amour l'après-midi, 1972). Già con il primo film e il ciclo dei racconti morali si viene a profilare nettamente la dimensione di uno stile inconfondibile e la caparbia leggiadria del tocco narrativo incentrato nell’affrontare scrupolosamente i processi dell’animo umano, i turbamenti sentimentali di fronte a scelte morali e la dialettica tra ragione e passione. Inoltre, centrale il ruolo del caso, e la fatalità con cui si risolvono gran parte delle scelte dei protagonisti, quasi a turlupinare l'inane tentativo degli esseri umani di essere padroni, controllori e decisori della propria vita. La funzione delle parole nei film di Rohmer costituisce una vera e propria estetica della significazione e della comunicazione segnica. E’ nell’incessante scorrere dei dialoghi, e nella continua contaminazione tra letteratura, teatro, filosofia, musica, pittura, sia essa sul piano dell’espressione che su quello del contenuto, che si manifesta e si consolida la delicatezza e la profondità dello sguardo rohmeriano. L’estrema sintesi realistica di ogni suo film è frutto di un’attenzione formale mai casuale: è così per ogni aspetto dell’ambientazione - che richiama, racconta, racchiude il moto sentimentale dei personaggi -, per i dettagli e la costruzione del quadro, la voce narrante del protagonista maschile mutuata da uno schema letterario, il ruolo dei personaggi femminili, mai protagoniste ma, di fatto, sempre, l’elemento cardine di ogni cambiamento ed emblema di complessità, furbizia, controllo, senza per questo mancare di numerose contraddizioni.
In seguito ai Sei racconti morali Rohmer realizza due adattamenti cinematografici da opere letterarie di ambientazione storica: La Marchesa von... (La Marquise d'O..., 1976, Premio speciale della giuria al Festival di Cannes) da un racconto di Heinrich von Kleist (Die Marquise von O, 1808) e Perceval le Gallois (1978) dal poema medievale di Chrétien de Troyes.
Negli anni ’80 inizia il secondo ciclo di sei film,
Commedie e proverbi (Comédies et proverbes) in cui l’autore per ogni titolo prende spunto da un proverbio o da una citazione letteraria in qualche modo legata ai temi poi trattati nei film: “Non si può pensare a niente” (titolo di un’opera di Alfred de Musset, Non si può pensare a tutto) per La moglie dell'aviatore (La femme de l'aviateur, 1981), “Chi non batte la campagna? Chi non si inventa castelli in Spagna?” (motto di Jean de La Fontaine) per Il bel matrimonio (Le beau mariage, 1982), “Chi parla troppo si danneggia” (motto di Chrétien de Troyes) per Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage, 1982, Orso d'Argento per la regia a Berlino), “Chi ha due donne perde l’anima, chi ha due case perde il senno” (detto popolare) per Le notti della luna piena (Les nuits de la pleine lune, 1984), “Ah, venga il tempo in cui i cuori s’innamorano” (verso di Arthur Rimbaud) per Il raggio verde (Le rayon vert, 1986, Leone d’oro a Venezia), “Gli amici dei miei amici sono miei amici” (proverbio) per L'amico della mia amica (L'ami de mon amie, 1987).
Negli anni ’90 è la volta del terzo e ultimo ciclo, quello dei
Racconti delle quattro stagioni (Contes des quatre saisons): Racconto di primavera (Conte de printemps, 1990), Racconto d'inverno (Conte d'hiver, 1992), Un ragazzo, tre ragazze (Conte d'été, 1996), Racconto d'autunno (Conte d'automne, 1998).
In mezzo all’ordinamento seriale dell’opera rohmeriana c’è spazio per lungometraggi slegati da questa logica dispositiva, ma non per questo lontani dallo spirito, dai temi, dal caratteri esclusivi di questo regista: Reinette e Mirabelle (Quatre aventures de Reinette et Mirabelle, 1987), L'albero, il sindaco e la mediateca (L'arbre, le maire et la médiathèque, 1992), Incontri a Parigi (Les rendez-vous de Paris, 1995), La nobildonna e il duca (L'Anglaise et le Duc, 2001), Triple Agent - Agente speciale (Triple Agent, 2004), Le canapè rouge (2005, inedito in Italia), Gli amori di Astrea e Celadon (Les amours d'Astrée et de Céladon, 2007). Proprio in occasione della presentazione alla Mostra del cinema di Venezia del suo ultimo film Rohmer diceva: “Io mi considero tuttora un regista hitchcockiano. Ma cos’è Hitchcock, se non un creatore di forme? Io non pretendo di creare forme alla sua maniera. Però mi rendo conto che nei miei film sono sempre presenti motivi geometrici”. E adottando proprio la struttura del motivo è possibile percorrere l’intera filmografia di questo autore, moderno ma teso al classicismo, che “senza alcun preconcetto, e senza mai cadere nelle trappole di una modernità di facciata, dell’adesione ad una ideologia troppo marcata, della tentazione di fare moda o tendenza” è riuscito a catturare e suscitare la bellezza del vero e del mondo. Motivi centrali come la fedeltà (La mia notte con Maud, La collezionista, Racconto d’inverno, Le notti della luna piena...), il movimento di attrazione-repulsione, la soddisfazione del desiderio, l’erotismo sfiorato, l’intervento decisivo del caso, costituiscono assieme la leggerezza e la sagacia dello sguardo e la profondità del cinema di Eric Rohmer.: “Ciò che è importante al cinema è che l’azione non si svolge solamente nello spazio dell’inquadratura, ma può svilupparsi in uno spazio più vasto. E lo spettatore, nel suo ricordo, ha l’illusione che le cose siano nello stesso quadro”. E nella stessa intervista aggiunge: “ Non sono determinista, non credo alla casualità, non cerco le cause. Mi innervosisce un poco dire “questo fatto ha una causa”: perché ne avrebbe una? perché bisogna assolutamente cercarne una? perché bisogna assolutamente trovare una spiegazione? Non vedo le cose a questo modo, vedo piuttosto le cose come tendenti verso la fine, come in una storia. All’interno di tutto ciò, il cinema sfugge forse alla casualità umana perché il cinema ci rinvia alla natura. A una natura organizzata, a una natura orientata verso un fine. L’uomo non è assolutamente padrone della sua materia, egli va in una certa direzione ed è necessario che si lasci portare in questa direzione”.
L’infinita possibilità riproduttiva dell’immagine cinematografica sarà l’unico rimedio alla consapevolezza della mancanza di un maestro che - come scrisse Serge Daney - “ha saputo restare fedele a se stesso ed attendere il momento in cui la sua evoluzione avrebbe raggiunto quella del pubblico”.

Alessandro Tognolo

 
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