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THE BEATLES
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cinquantenario |
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I
cinema sono chiusi da ormai un mese, ma i
Beatles sono ormai
"chiusi" da cinquant'anni... Era il 10 aprile del 1970
quando Paul McCartney diede l'annuncio di non far più parte
della band. Lo scioglimento dei Fab Four fu un fulmine
a ciel sereno per i fan (e anche per gli altri tre Beatles che
avevano colto il disfacimento, ma che ne presero coscienza
proprio dall'esternazione di Paul). Si chiudeva un'epoca: il
'68 resta data storica del movimento giovanile, il
'69,con
l'uscita di
Easy Rider, la pubblicazione di Abbey Road
e i concerti di Woodstock, Hyde Park (esordio dei
King Crimson)
e Savile Row (il Rooftop Concert sul tetto della Apple
Records),
segna una tappa memorabile della rock generation così che il
'70 chiude, in fondo definitivamente, un'avventura, musicale e
ideale, di cui i Beatles sono statii anima e corpo.
Ci voleva un omaggio e quello
che abbiamo scelto è un'originale cover sinfonica di A Day In
The Life: per chi non la conosce già una piacevolissima
sorpresa, per gli altri (noi compresi), un'emozione, sempre.
Ezio Leoni |
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Dracula -
Mark Gatiss e Steven Moffat
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Gran Bretagna
Netflix - 2016 (3 episodi)
trailer |
Di
fronte ai più di 200 film, di cui alcuni veri capolavori e
alle numerosissime serie incentrate sul tema del
vampiro era
una bella sfida quella che Mark Gatiss e Steven Moffat hanno
brillantemente superato con questa mini serie in tre puntate
di novanta minuti ciascuna realizzata per BBC One, liberamente
ispirata al romanzo di Bram Stoker.
“Il sangue è vita” afferma Dracula nel romanzo, “Il
sangue è vite. E' sicuro che abbia detto proprio così?”
domanda suor Agatha Van Helsing (Dolly Wells) al povero
avvocato Jonathan Harker (John Heffernan) riuscito a fuggire
dal castello del Conte, ridotto a cadavere, nel primo episodio
della miniserie. “Solo nel sangue troviamo la verità”
dirà il Conte Dracula (Claes Bang) alla dottoressa Zoe Van
Helsing alla fine dell'ultimo episodio “Tutto è nel sangue
se sai come leggerlo”. E il sangue è il veicolo di questo
viaggio nel tempo sul tema della conoscenza che scorre nelle
vene, attraverso il corpo e i secoli, che la serie, con una
sapiente alternanza di registri linguistici diversi, ci
propone.
Il primo episodio Le regole della
bestia è quello che più si attiene al romanzo, con
la forma epistolare sostituita da una lunga confessione che
Harper rilascia a una bizzarra suora di un monastero ungherese
dopo la sua fuga dal castello di Dracula. Si svolge nel1897
(anno in cui il romanzo di Stoker venne dato alle stampe) e
ricostruisce il viaggio in Transilvania e la conoscenza col
vampiro, di cui rapidamente Harker diventa preda. Sarà durante
un sogno erotico ispirato dalla lettura di una lettera
dell'amata Mina, di cui il Conte assume le sembianze, che
inizierà il contagio, che permetterà a Dracula di ringiovanire
a spese del malcapitato avvocato. Nel morso convergono terrore
ed estasi, perché il vampiro, sappiamo, si insinua dove c'è
frustrazione sessuale, desiderio, colpa e peccato. “Ha
avuto rapporti sessuali col Conte Dracula?” chiede suor
Agatha, mentre una mosca si introduce nell'occhio di Harper...
L'umorismo nero e la fisicità
dell'orrore che caratterizzano il primo episodio, lasciano il
campo, nel secondo, Veliero di sangue,
alla sfida intellettuale tra il Conte e la sua avversaria,
suor Agatha, il cui personaggio acquista una centralità come
antagonista nella lotta tra il vampiro e l'”umano”, il
soprannaturale e la Ragione, preannunciata già dalla prima
scena attraverso la partita a scacchi, che si svolge tra i
due, ora a bordo del veliero Demeter diretto a Londra. Un
gioco in cui si sfidano due intelligenze e che fa emergere i
caratteri dei personaggi: un Dracula aristocratico e
“bestiale”, edonista e colto e soprattutto abile scacchista
(ammirabile l'interpretazione multiforme di Claes Bang) e una
suora capace di tenergli testa sul piano intellettuale e del
gioco con un approccio disincantato nei confronti della fede,
espresso attraverso battute taglienti: “Come molte donne
della mia età sono intrappolata in un matrimonio senza
amore..”
Preannunciato da un finale
dell'episodio precedente, che è un vero coup de theatre,
spiazzante e perturbante, il terzo episodio,
La bussola oscura, è
ambientato in Inghilterra centoventitrè anni dopo.
L'avversaria di Dracula è questa volta una scienziata, Zoe Van
Helsing, felice trasposizione al femminile del professor Van
Helsing, interpretata sempre da Dolly Wells. Nel rapporto tra
i due si inserirà un terzo personaggio, Lucy Westenra, una
vivace ragazza di colore londinese (ben lontana dal pallore
usuale delle fanciulle vampirizzate), amante dei party, dedita
unicamente al culto dell'apparenza, ma ciononostante
desiderosa di offrirsi interamente al Conte, che le succhierà
la vita. Il tono ironico che caratterizza l'episodio,
inevitabile data l'ambientazione che vede un vampiro alle
prese con la vita del XXI secolo, sfuma nell'elegiaco e poi
nel tragico nel finale in cui Zoe Van Helsing avrà la sua
vendetta a prezzo della vita. Amore e morte. La coppia diviene
l'emblema di un doppio sacrificio: come suor Agatha
nell'episodio precedente aveva bevuto il sangue del vampiro da
una provetta, impossessandosi di lui, così ora Dracula
baciando Zoe e bevendone il sangue malato morirà. Dopo una
dissolvenza in bianco, il rosso purpureo del sangue,
dell'amore invade lo schermo, ponendo la parola fine a questa
serie, che riesce a coniugare in maniera brillante la
tradizione del romanzo di Bram Stoker e l'omaggio ai classici
del cinema (“I never drink wine”: è una delle prime
battute di Dracula) con un' estetica postmoderna e
contemporanea, dimostrando ancora una volta l'intramontabilità
di un mito capace di sopravvivere nei secoli proprio grazie al
suo essere metamorfico.
Gli
sceneggiatori Mark Gatiss e Steven Moffat già si
erano cimentati con la trasposizione da romanzi
famosi con le serie
Sherlock e Jekill. |
Cristina Menegolli |
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The Terror -
David Kajganich
# USA
AMC - Amazon Prime Video
stagione 1 - 2018 (10 episodi)
trailer
stagione 2
Infamy - 2019 (10 episodi)
trailer |
Quando
i contorni delle cose e dei paesaggi a noi usuali vengono
modificati e resi quasi irriconoscibili da un bianco manto di
neve, il disorientamento produce svariate reazioni a livello
emotivo, che possono andare dall'allegria, alla nostalgia, al
senso di smarrimento, al panico, come tanta letteratura e
soprattutto poesia ha raccontato. Ciò che ricorre più spesso è
comunque il mistero che con la neve sembra avvolgere il
paesaggio, mistero che spesso al cinema ha assunto una
connotazione di minaccia incombente.
Forse nessun film è riuscito a rappresentare questo senso di
impotenza dell'uomo nei confronti di un mondo che ha perso
ogni segno di riconoscibilità come l' indimenticabile
La cosa (1982) di Carpenter. Se gli ambienti artici
hanno fatto da sfondo ad altre serie televisive,
The Terror è forse l'unica
che rimanda alla complessità riflessiva del film.
Creata nel 2018 da David Kajganich (cosceneggiatore di
Suspiria e
A Bigger Splash) e
visibile sulla piattaforma Prime Video, è tratta dal
romanzo di Dan Simmons (uscito in Italia con il titolo La
scomparsa dell'Erebus) e co-prodotta da Ridley Scott.
Ambientata nel 1845, racconta la spedizione al Circolo Polare
Artico alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest di due navi
della Marina Britannica, la Erebus e la Terror, che rimangono
bloccate in mezzo ai ghiacci, costringendo l'equipaggio a tre
anni di permanenza in quell'ambiente ostile, dal quale nessuno
tornerà vivo. Il romanzo e la serie si ispirano a fatti
realmente accaduti, rimasti avvolti nel mistero fino ad anni
recenti, quando sono stati trovati i relitti delle navi e
alcuni corpi sui quali sono state effettuate delle autopsie.
Sulla base di questi ritrovamenti e delle interviste
rilasciate da alcuni Eschimesi a una delle spedizioni mandate
nell'800 a cercarle, si è potuto ricostruire a grandi linee
quanto successo. La spedizione guidata dall'ammiraglio
Franklin è incappata in una serie di sfortunate combinazioni:
estati particolarmente rigide che hanno impedito lo
scioglimento dei ghiacci che imprigionavano le navi, un errore
nell'innovativo metodo con cui erano sigillate le provviste,
che ha causato un grave avvelenamento da piombo,
l'impossibilità di raggiungere a piedi qualche landa abitata
dell'Artico canadese. Per cui fame, freddo, malattie,
avvelenamento e anche casi di cannibalismo non hanno lasciato
scampo ai membri della spedizione.
La serie si attiene a quanto è stato
storicamente dimostrato, ma è proprio questa ricostruzione
realistica che dà forza all'inserimento del soprannaturale che
accompagna il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra i
personaggi costretti claustrofobicamente in situazioni
estreme. Grazie a una messa in scena attenta a non trascurare
i più piccoli rumori e i gelidi dettagli atmosferici: il
vento, gli scricchiolii, i gemiti sinistri delle due navi, i
solitari pezzi di ghiaccio che galleggiano sopra l'acqua
grigia, la natura appare di per se stessa ostile e feroce,
fino ad assumere la forma “reale” di una creatura della
mitologia nordica, simile ad un enorme orso, Tuunbaq, che
assale gli uomini per impossessarsi delle loro anime. Ma la
minaccia esterna non fa che amplificare quella interna, ancora
più grande, che si impossessa delle menti dei personaggi,
chiusi nelle soffocanti navi claustrofobiche, col cibo
avvelenato, con le malattie, tra conflitti, intrighi,
impossibilità di comunicare in modo trasparente per
l'inflessibile gerarchia militare. La disperazione collettiva
condurrà i malcapitati passo passo verso la follia, ben
sottolineata da una regia molto abile nel costruire e
approfondire i caratteri dei personaggi e l'intrecciarsi dei
rapporti fra questi, supportata dalle perfette interpretazioni
di attori come Jared Harris (The
Crown, The Ward)
,il capitano Crozier, Tobias Menzies (Games
of Thrones, Outlander)
il comandante Fitzjames e Ciaran Hinds, l'ammiraglio Franklin.
La serie, retta da una suspence che non dà tregua allo
spettatore, ha la capacità di porlo nel contempo di fronte
all'interrogativo: è la Natura che, quando si sente violata
dall'uomo, reagisce facendosi “matrigna” capace di trascinarlo
attraverso lo smembrarsi del corpo e della mente verso una
lenta discesa all'inferno o è l'uomo che proietta
sull'ambiente esterno le sue peggiori pulsioni e paure?
La seconda stagione,
Infamy, è ambientata a San
Francisco in un campo di prigionia, dove vennero rinchiusi i
Giapponesi dopo Pearl Harbour. L'ambientazione è interessante
e lo sviluppo narrativo presenta buoni spunti, pur attenendosi
in questo caso all'interno del genere horror, nel complesso
però non ha il respiro e la complessità della prima.
Cristina Menegolli |
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La fantastica
signora Maisel
The
Marvelous Mrs. Maisel
Amy
Sherman-Palladino
# USA
Amazon Prime Video
stagione 1 - 2017 (8 episodi)
stagione 2 - 2018 (10 episodi)
stagione 3 - 2019 (8 episodi)
trailer |
La città archetipo di tutte
le storie, la rappresentazione del teatro-mondo in cui tutto
avviene e tutto si consuma, almeno nell’immaginario dell’uomo
spettatore di se stesso del XX e XXI secolo. È New York, il
vaso di pandora degli amori e dei delitti del nostro tempo,
l’ombelico dell’universo in cui ciascuno può trovare il
proprio punto di osservazione. Nelle visioni domestiche di
questo momento irripetibile marchiato dalla pandemia, è
impossibile dunque non accostare La
fantastica signora Maisel a
The Deuce, di cui ci siamo occupati nello
scorso numero: perché la città – protagonista, più che
semplice sfondo – è la stessa, sia pure una ventina di anni
prima, e perché in entrambe le narrazioni le vicende più
significative prendono corpo all’interno di un locale, l’Hi-Hat
per la serie con James Franco e il Gaslight – realmente
esistito negli anni ’50 e ’60 – per quella ideata da Amy
Sherman-Palladino.
Le analogie forse finiscono qui: perché
The Deuce, ispirato da un leit motiv gravoso
(la prostituzione e i suoi baratri), è una storia straziante
di vocazioni e di delitti, di crimini sentimentali insufflati
dalle droghe e dall’aids, dell’abisso senza fondo della
mercificazione sessuale, ma in realtà narra del bruciarsi
della giovinezza e finisce con l’essere un malinconico inno
all’amicizia e all’anelito di libertà che continuano a fiorire
nel sudiciume del quotidiano; La
signora Maisel invece è di tutt’altro tenore e con
leggerezza, senza essere mai banale, percorre i binari sicuri
della commedia sofisticata, si riveste dei colori pastello
(fintamente) ingenui dell'Upper West Side, ricostruendo non
già il brulichio di sordidi bassifondi, ma l’ennesima,
luccicante e fantasmagorica rappresentazione del self-made man
(anzi, self-made woman, visto che qui si tratta di una
emancipazione femminile coraggiosa e per molti versi precoce)
condita da un irresistibile sense of humour che ricorda
le vertiginose pellicole dei fratelli Marx e, più di recente,
le opere di
Woody Allen. Il ritmo
narrativo e i dialoghi della signora Maisel e del suo
entourage somigliano piuttosto a quelli di
Friends, altra leggendaria
serie profondamente newyorchese che non a caso per una decina
d’anni ha vissuto di gloria, pur nell’asfissia di riprese
confinate quasi sempre in interni, proprio grazie allo
speech e alle sagaci invenzioni – di chiara ispirazione
yiddish – di Marta Kaufman e David Crane. Perché
La fantastica signora Maisel
non solo racconta le vicende e le esibizioni di una comica
ebrea, ma è completamente intrisa di spirito yiddish. La serie
televisiva statunitense creata da Amy Sherman-Palladino
dal 2018 – con un anno di ritardo rispetto all’uscita sul
mercato Usa – fa parte del bouquet video di Amazon Prime
Italia. Finora sono 3 le stagioni realizzate e trasmesse, ma
già si annunciano una quarta serie e forse anche una quinta,
quella conclusiva.
La storia è quella di Miriam “Midge”
Maisel (la deliziosa e frizzante Rachel Brosnahan), una
giovane donna ebrea che fino a un certo momento della vita
percorre con dedizione – alla famiglia, ai canoni religiosi,
alle consuetudini borghesi – tappe regolarmente programmate:
il college, il matrimonio con Joel (Michael Zegen), due figli,
una sapiente e coltivata dedizione alla cura di sé e alla
cucina secondo le tradizioni (la punta di petto è il suo
piatto seduttivo e catartico). Fino alla svolta, che ne segna
la metamorfosi da casalinga, moglie e figlia esemplare
(irresistibili le interpretazioni di Tony Shalhoub, scorbutico
docente di matematica nonché padre di Miriam, e Marin Hinkle,
la madre) a beniamina dei comedy club dell'East Village: a
determinarla è il marito Joel, manager di giorno e di notte
aspirante cabarettista di poco successo, che con leggerezza le
confessa il classico tradimento con la segretaria da cui
desume la fine del loro matrimonio. Da qui in poi, esplode l’hellzapoppin'
rutilante di Miriam Maisel, che travolge tutto e tutti e che
qui non sveliamo in nulla per non togliervi il piacere della
visione.
Due parole però ancora sulle altre figure
chiave della serie. Controcanto sboccato della protagonista è
la muscolare e sanguigna manager Susie Myerson, interpretata
da Alex Borstein, esempio forse ancora più irriverente di
emancipazione femminile ante litteram. E poi ci sono i
genitori di Joel, irrefrenabile concentrato di sagacia,
intraprendenza e follia ebraiche che trovano
nell’interpretazione di caratteristi di razza come Kevin
Pollak (Moishe Maisel) e Caroline Aaron (Sharon Maisel) due
fantastiche impersonificazioni.
Una connotazione precisa della serie è il
trascorrere delle stagioni, nitide e riconoscibili, e dunque
rassicuranti come solo nella New York cinematografica possono
essere: marciapiedi lucidi di pioggia e costellati di foglie
giallo-ocra in autunno, strade e vialetti candidi di neve
d’inverno, tripudi di teneri verdi in primavera, accecanti
chiaroscuri d’estate. Il tutto percorso dagli immancabili taxi
gialli, che scivolano silenziosi da una stagione all’altra
conducendo le sovraeccitate Midge e Susie a un’audizione
televisiva, a uno spot radiofonico o a una delle tante
scorribande alla volta del dinner preferito (il Kettle of
Fish Bar, che esiste davvero al Greenwich Village), covo
di agenti teatrali squattrinati e intrallazzatori di ogni
tipo, per uno spuntino a base di junk-food.
Un precipitato di archetipi estetici e situazionali che, nel
susseguirsi degli episodi, funziona benissimo anche per le
feste comandate, siano il Natale impudentemente consumistico
della Grande Mela oppure il più rigoroso, ma solo in
apparenza, Yom Kippur. O magari nelle trasferte fuori New
York: come a Parigi (seconda serie), un distillato più vero
del vero, con i suoi bistrot, i romantici abbaini, i mercatini
rionali da percorrere basco in testa e baguette sottobraccio;
o come l’incredibile villaggio-vacanza alle Catskills, dove le
famiglie vivono in cattività sotto l’occhiuta e
ipercomunicante sorveglianza della direzione.
In ogni snodo narrativo, la serie si
caratterizza per la cura nei dettagli dell’ambientazione.
Tutti elementi dell’american way of live alla metà del
Novecento, come l’abbigliamento (gran lavoro della costumista
Donna Zakowska, che per gli abiti di Midge si è ispirata ai
modelli indossati da Audrey Hepburn e Grace Kelly), i
dispositivi e gli apparecchi (panciuti televisori,
elettrodomestici bombati), le lucide cromature delle
automobili. Diner, ristoranti, cocktail bar, sale da concerti,
reparti dei più noti grandi magazzini della città sono
rigorosamente ricostruiti secondo lo stile dell’epoca, con
profusione di acciaio e bachelite. A completare il tutto, una
colonna sonora di classe (Ella Fitzgerald, Nina Simone, Frank
Sinatra, Dean Martin e molti altri, con in più le melodie
composte per l’occasione da Curtis Moore e Tom Mizer) e la
modernità della regia e di un montaggio rapido e sempre
funzionale alla narrazione. Per non dire dei dialoghi, il cui
ritmo è spesso vorticoso: vale la pena ascoltare qualche
sequenza dell’originale versione non doppiata, che
naturalmente è infarcita di calembour intraducibili e
saliscendi linguistici degni dell’otto volante di Coney Island.
In definitiva, la fantastica signora Maisel, nel modo più
dilettevole possibile, ci insegna due cose, profondamente
americane e per questo universali: che nella vita conviene
sempre esibirsi con coraggio e sincerità, e che vale sempre la
pena, se li si riconosce, di assecondare e nutrire i propri
talenti, anche quando tutto sembra portare in un’altra
direzione. Di questi tempi, non è poco.
Marco Bevilacqua
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