Gli incredibili (The Incredibles) - Brad Bird - animazione USA 2004 - 2h
Shrek 2 - Andrew Adamson - animazione USA 2004 - 1h 48'
The Polar Express - Robert Zemeckis - animazione USA 2004 - 1h 48'

 
   

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   Cosa resta di "politicamente corretto" se, dopo le invettive fin troppo smargiasse di Michael Moore (Fahrenheit 9/11), anche l’animazione si fa beffe del bon-ton, della grandeur hollywoodiana, del rapporto tra eroismo e istituzioni, tra superpoteri e mediocrità? I due campioni d’incassi di questo Natale, Gli incredibili e Shrek 2, si esaltano grazie alle meraviglie della computer graphic (specie il primo), ma giocano le loro carte vincenti anche in una fervida creatività narrativa che stravolge la fiaba classica (Shrek) e problematizza le adrenaliniche esistenze dei supereroi.

Con Gli incredibili – Una normale famiglia di super eroi siamo nella linea “tormentata” dei Marvel Comics (“un grande potere comporta grandi responsabilità” è il rovello di Spider-Man), ma Brad Bird, già autore del “pacifista” Il gigante di ferro (1999), innesta nel tessuto connettivo della superavventura una serie di variabili originali e deflagranti. Si parte con un Mr. Incredibile che, com’è tradizione, sgomina i malvagi, tende a fare il misogino, si maschera dietro ad una doppia identità (Brad Parr). Poi intervengono un inatteso supermatrimonio (con Helen, Elastic Girl) e una ancor più imprevedibile conflittualità con la popolazione e il governo (gli irriconoscenti cittadini chiedono degli inopinati rimborsi-danni e occorre mettere in atto un Programma di Protezione Federale per trasformare i supereroi in tranquilli, anonimi travet…). 15 anni dopo ritroviamo Helen brava mammina di casa, Brad insoddisfatto impiegato di una compagnia di assicurazioni cinica e depersonalizzante, i loro figli Violetta, Flash e Jack-Jack imbrigliati nella quotidianità, con la proibizione di usare (e manifestare) i loro poteri. Da serial movie fumettaro a sitcom familiare, ma c’è spazio per ulteriori scarti di genere, dal ciclo di James Bond a Spy Kids, passando per il filone catastrofico. Le personalità dei Parr non restano piatte figurine caratterizzate da funambolici poteri (alla super-forza di Brad e alla dilatazione elastica di Helen corrispondono l’invisibilità di Violetta e i campi di forza che riesce a creare, la velocità straordinaria di Flash, le potenzialità di Jack-Jack ancora inespresse…) ma acquistano una profondità (tridimensionale) che è anche psicologica. A supportarli, con ironia salottiera, è Edna Mode, buffa stilista che disegna e cuce le loro sgargianti supertute; a contrastarli, con malefica invidia, il cattivo di turno, Buddy-Sindrome. Il suo piano è quello di terrorizzare il mondo con un devastante mostro meccanico, per poi salvarlo ed ergersi a nuovo beniamino dell’umanità; ma il suo spirito di rivalsa è anche quello di fornire a tutti degli strumenti per essere “super” in modo che lo straordinario diventi normalità… Nell’incredibile avventura de Gli incredibili, la normalizzazione è uno spettro che si estrinseca nell’alveare-ufficio di Brad, nel traffico incanalato che lo riporta a casa, nell’asettica standardizzazione delle villette di periferia in cui vive la famiglia Parr (Brad Bird è stato anche consulente della serie Simpson). C’è un senso di frustrazione e rimpianto che aleggia, divertito, in questo mondo che non ha più bisogno di supereroi, in questo individualismo democratico emarginato dal qualunquismo, in una mentalità dominante in cui l’impulso verso la giustizia e il bene comune viene imbrigliato dal quieto vivere o da un malvagio senso di protagonismo. Se aggiungiamo la strabiliante verosimiglianza che l’animazione digitale riesce ormai a conferire ai suoi protagonisti, la cura nella rappresentazione degli ambienti e del decò anni ‘60 (un altro rimpianto “sociale”?), l’ammirazione per la genialità che gli studi della Pixar, non paghi dei successi di Toy Story, Monsters & Co e Nemo, riescono a infondere in ogni loro produzione è pari solo al piacere della visione.
Non è da meno, in tal senso,
Shrek 2, che vince una scommessa difficile, quella di dare un sequel ad una fiaba destabilizzante come il precedente titolo della Dreamworks. Nel suo primo Shrek Andrew Adamson film successivo in archivio ribaltava la magia del bacio d’amore: non più il ranocchio che diventa principe, ma la bella principessa Fiona che si trasforma in un’orchessa e che può vivere felice accanto al suo simile, Shrek, corpo tozzo e verdastro, bocca larga e naso grosso, predisposizione liberatoria al rutto e al peto. È proprio da questa situazione “inaccettabile” che prende le mosse la nuova storia. Passino le trasgressioni al galateo, ma il vivere felici e contenti non può essere di competenza degli orchi… Lo pensa il principe azzurro (imbelle e azzimato come non mai), lo esige sua madre la Fata Madrina (movenze da paffuta soubrette, sorriso infido di chi, più che al matrimonio, punta alla dote), ne convengono i reali genitori di Fiona che si aspetterebbero che la liberazione dal sortilegio della figlia si fosse risolto in ben altro modo… Su tanto conformismo, e sulla disponibilità al compromesso che ne consegue, scendono gli strali di Shrek 2 e nello sberleffo generale si salva ben poco della tradizione fiabesca e dell’impeccabile status dell’america dopo Clinton. Dalla palude “verace” in cui è di casa Shrek si passa ad un regno imbellettato e intollerante (la popolazione comincia ad agitare i forconi non appena la coppia di orchi mette piede a palazzo), il cui nome Far Far Away (lontano, lontano) troneggia sulle colline con una scritta analoga a quella di Hollywood, dove il portale d’ingresso ricorda il leggendario cancello della Paramount e in cui il ballo a corte ricorda le sfilate degli oscar, con tanto di commentatrice radio-tv a presentare gli invitati.

Se ne Gli incredibili si salva il valore della famiglia (solo l’unione di tutti fa la forza necessaria a sconfiggere il male), qui l’amore sincero tra Fiona e Shrek e la soddisfatta accettazione del loro essere orchi è il fulcro vincente di una narrazione piena personaggi “da favola”, di paradossi e di colpi di scena: con un picaresco Gatto con gli stivali, che decide al fine di mettere la sua spada al servizio dei “buoni”, con Pinocchio che si scopre indossare biancheria intima femminile, con l’onnipresente, logorroico, Ciuchino che una pozione trasformerà per un po’ in un bianco destriero. In un surplus di filtri magici, un turbinio di mutazioni fisiche e ripensamenti psicologici, con una colonna sonora che recupera Changes (ovviamente) e La vida loca, il gioco più appassionante che accomuna Shrek 2 e Gli incredibili è quello delle citazioni: nel film di Brad Bird l’isola misteriosa in mezzo all’oceano nasconde anfratti tecnologici che rimandano a Verne e a La Spectre, Andrew Adamson fa si che Fiona e Shrek emulino Mary Jane e Peter (Spider-Man) in un bacio “al contrario” e che nella festa finale, sul palco, il Gatto con gli stivali venga inondato d’acqua come Alex in Flashdance. E poteva mancare, in entrambi, un omaggio a Guerre stellari? Quel Far Far Away di Shrek 2 richiama “una galassia lontana, lontana”, in Gli incredibili la corsa di Flash tra gli alberi è iperbole digitalizzata degli inseguimenti nella foresta de L’Impero colpisce ancora.

In tanta frenesia cinefila e metalinguistica, pare ben poca cosa il patetico The Polar Express. Tratto da un libro illustrato di Chris Van Allsburg racconta l’esperienza onirica di un ragazzino, arrivato all’età in cui il mito di Babbo Natale entra in crisi. Ad aspettarlo fuori di casa, nella notte fatidica, c’è un treno fantastico che lo porterà dritto al Polo, proprio nel paese di Santa Claus. Un viaggio tra maestosi paesaggi nordici, laghi ghiacciati e boschi coperti di neve, un’avventura piena di (scontate) sorprese, un percorso iniziatico che lo farà incontrare con altri coetanei, con un enigmatico capotreno, con un angelo che veste panni da vagabondo; arriverà alla meta giusto per trovarsi immerso nella grande festa che precede la partenza della slitta per la consegna dei doni e sarà riportato puntualmente a casa, per riscoprirsi bambino, pronto a diventare adulto, ma a non dimenticare il magico tintinnio dei campanellini natalizi. Se nel finale The Polar Express sa cogliere un guizzo di leggiadra nostalgia adolescenziale (ma continuiamo a preferire la poesia di Le avventure di Peter Pan), il lavoro di Zemeckis film precedente in archivio (pur con all’attivo titoli innovativi quali Ritorno al futuro, Chi ha incastrato Roger Rabbit e Forrest Gump) nel suo complesso delude, proprio perché imbolsito da una retorica narrativa che la tecnica della “performance capture” appesantisce ulteriormente . Il filmare attori in carne ed ossa con il corpo costellato di sensori, che trasferiscono movimenti ed espressioni ad un computer , sarà una nuova frontiera dell’animazione, ma alla resa dei conti si traduce in un’inespressività emozionale.


 

Tom Hanks che “interpreta” tutti i protagonisti, dal capotreno al vagabondo, da Babbo Natale al ragazzino stesso, forse avrà trovato in quest’operazione un suo riscontro economico (ne è anche produttore), ma The Polar Express sembra una recita organizzata dal museo delle cere, con esorbitanti peripezie che non valgono più di una corsa sulle montagne russe, con evoluzioni della macchina da presa che certo solo il digitale può permettere (bellissima, va detto, la sequenza che accompagna lo svolazzare del biglietto ferroviario) ma che risultano fini a se stesse, con una miriade di elfi rosso vestiti e con un brulicare di luci e campanelli che nulla aggiungono ad un atmosfera di laicizzata commercialità. Del luna-park pseudonatalizio di Hanks e Zemeckis crediamo che la nostra cinefantasia possa fare a meno.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  25 dicembre 2004

cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2005