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2002

bimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 4
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 

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Un anno di attività, quattro numeri… La periodicità di MC magazine è precaria quanto l’esistenza stessa della rivista, della sua redazione… Non certo del suo status no-profit, del suo progetto culturale! La nostra presenza sul web non vuole essere “presenzialismo” di rete, ma occasione di testimonianza  essen-ziale, di “pagine di cultura e informazione cinematografica” da affiancare, nell’attualità del continente, alla linea editoriale di The Movie Connection, dalla cui costola esce questo magazine.
Così la panoramica relativa al
Festival di Venezia è ridotta quest’anno al minimo, secondo criteri di personalistico interesse dei nostri inviati, privilegiando una visione d’insieme che si barcameni tra l’imbarazzante evolversi storico politico dell’istituzione Biennale e i nuovi segnali “di tendenza” di quell’ oggetto del desiderio (ludico e culturale) chiamato cinema.
La precarietà di cui sopra emargina purtroppo alcune riflessioni che sarebbero “doverose” per coprire l’ampio spettro d’intervento a cui la rivista ambisce (cultura e altro...). Tra l’insania bellica della politica estera mondiale (a un anno dall’11 settembre il nostro intervento sul  numero 2 è ancora calzante purtroppo!) e la tracotanza personalistica delle nostre dinamiche governative (l’unico sospetto legittimo è che l’illegittimità diventi insospettabile!), la carne al fuoco sarebbe davvero molta. Speriamo nel prossimo numero…

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Segnali probanti del nuovo corso De Hadeln? Inutile tentare un'anamnesi polemica di questa Mostra di Venezia 2002 inopinatamente sottratta alla gestione Barbera, ma, ironicamente, propria la sezione del secondo concorso (Controcorrente) propugnata dal vecchio direttore, è quella che più ha saputo darsi una vera identità da Festival. È vero che i selezionatori non possono che pescare in ciò che offre il mercato, ma la piattezza artistica di questa vetrina di Venezia 59 è stata deprimente. Una manciata di titoli di buon livello (Frida, The Magdalene Sisters, Road To Perdition, Far From Heaven, L'homme du trainDolls, Dirty Pretty Things) e la fresca sorpresa di Nha fala a dare corpo e dignità, ma poi pellicole improponibili come Bears' Kiss e Julie Walking Home hanno abbassato inesorabilmente il livello medio, già mediocre con opere stagnanti e pretenziose: da Un monde presque paisible (Michel Deville) a Un viaggio chiamato amore (Michele Placido), da The Tracker (Rolf De Heer) a La maison de fous (Koncialosky). L'innesto fecondo di Controcorrente (Lilja 4-Ever, Poniente, The Missing Gun, Un homme sans l'occidente...) e alcuni colpi ben azzeccati del Fuori concorso (la Bigelow, Eastwood e il lancinante 11'09" 01 - September 11) riescono a salvare la faccia di De Hadeln e soci, ma se il materiale per una Mostra con la M maiscola non c'è perché non ridurre le giornate in calendario (lo si dice da anni), perché non innestare nel corpo principale i pezzi forti dei Nuovi territori (ad esempio Rosy-fingered Dawn, il documentario su Terry Malik)? Il ritmo di visione per gli addetti ai lavori è stressante (un pasto caldo costa la perdita di almeno un film), le opere prime della Settimana della Critica restano ghettizzate, quasi impossibile riuscire a infilare nel percorso concorso/controcorrente le proiezioni collaterali (Risi e Antonioni...)!

11' 09" 01 - September 11
Messico/Iran/Burkina Faso/Israele/Bosnia Erzégovina/Egitto/Giappone/Francia/UK/USA
2002 - 2h 15'

http://www.bimfilm.com/11settembre2001/index.htm

Uno schermo nero, una colonna sonora in cui si accavallano voci, rumori, prima confusi, poi man mano sempre più definiti, sinistri scricchiolii, appelli disperati dai cellulari, richieste di soccorso in un crescendo di orrore: undici minuti e nove secondi che assorbono lo spettatore all’interno dello schermo NERO. Le immagini in diretta della tragedia delle Twin Towers fanno parte della nostra memoria, possiamo vederle anche solo attraverso la percezione auditiva sullo schermo oscurato dove soltanto per brevissimi flash compare quella che è diventata un’icona dell’11 Settembre: l’immagine del corpo piccolissimo che cade e che qualcuno ha paragonato al tuffatore della tomba di Paestum ritratto nell’atto di compiere il salto fatale, quello dalla vita alla morte.
“L’11 settembre la realtà ha annientato la fiction. Ricordo che le mani mi tremavano senza controllo mentre osservavo 3000 persone morire in diretta TV. Ormai abbiamo visto tutto” dichiara il giovane regista messicano Alejandro Gonzaléz Inarritu
film successivo in archivio(Amores Perros) autore di uno dei più suggestivi episodi del film collettivo sull’11 settembre. L’unico tra gli undici registi, che hanno firmato il film, a fare un riferimento diretto alle Twin towers, non a caso operando questa scelta linguistica.
Ciò che caratterizza e accomuna tutti gli altri episodi e che ha suscitato sterili polemiche, è infatti una sorta di pudore a mostrare, accompagnato dal bisogno di parlare d’altro. Il filtro che viene interposto tra la realtà e la sua rappresentazione in alcuni casi privilegia la distanza spaziale puntando sulla risonanza che l’evento ha avuto nei paesi d’origine dei singoli registi (i bambini afghani profughi in Iran di Samira Makhmalbaf / i simpaticissimi ragazzini del Burkina Faso del bel episodio di Idrissa Ouedraogo, che credono di avere riconosciuto in un personaggio barbuto Bin Laden e sperano di ottenere i soldi della taglia per far curare la madre di uno di loro / la telecronista, un po’ troppo di maniera, dell’episodio di Amos Gitai, che non riesce ad andare in onda con le immagini in diretta di un attentato a Tel Aviv perché proprio in quel momento arrivano le notizie da New York). In altri casi viene privilegiata la distanza temporale: l’11settembre della strage di Srebenica rievocata dal bosniaco Danis Tanovic, l’11 settembre del 1973 in Cile quando un colpo di stato pose fine al sogno di democrazia di Allende, nell’episodio di Ken Loach, il più applaudito dal pubblico in sala, il fantasma di un marine ucciso a Beirut nell’’80 che recita un dialogo con il regista egiziano Youssef Chahine, il reduce di Hiroshima diventato uomo serpente nello sconcertante episodio di Shoei Imamura.
C’è infine chi ha scelto di privilegiare la dimensione umana della tragedia come la regista indiana Mira Nair
film successivo in archivio che racconta una storia vera di una madre che non riesce a ritrovare il figlio dopo quel giorno e Claude Lelouch che invece non va oltre la banalità di una storia d’amore con tanto di happy end.
Un film collettivo: undici registi invitati a raccontare, in undici minuti nove secondi e una immagine, il loro punto di vista sui tragici eventi con assoluta libertà di espressione: l’assunto che li accomuna è perfettamente sintetizzato dall’episodio struggente e spietato firmato dall’unico regista americano Sean Penn: l’importante non è raccontare i fatti, ma ciò che essi ci hanno fatto vedere. Non vede la luce, che le Torri gemelle non lasciano entrare nel suo povero scantinato dove i fiori appassiscono, il vecchio vedovo (E. Borgnine) che vive nell’illusione che la moglie morta sia ancora con lui, ma quando improvvisamente la luce riappare i fiori rifioriscono e la realtà è tutta lì davanti ai suoi occhi, che prima ridono di gioia e poi piangono disperati. E’ la luce che improvvisamente entra nella stanza che ci deve far riflettere sulla realtà e sul nostro modo di rapportarci con noi stessi e con il mondo intero, perché la tragedia di New York è la tragedia non soltanto di coloro che sono morti nelle torri gemelle ma di tutti quelli che nel mondo in qualsiasi epoca sono stati e sono vittime della violenza, della povertà e della sopraffazione.

Cristina Menegolli


 

PEZZI d'America, l'America a PEZZI
cinema invisibile- ottobre-dicembre 2002
V.O.S. novembre-dicembre 2002

 

pagina 2  

Sequenze Cult!

pagina 3  

Le schede di Blood Work, Dirty Pretty Things, A Snake of June
  I premi del Festival

pagina 4  

Le schede di Dolls, Far from Heaven, L'homme du train, Lyla 4-Ever,   Oasis, Road to Perdition
La 17 settimana della Critica

 

 

in rete dal 8 ottobre 2002


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