L’uomo che rubò Banksy

Marco Proserpio

Nel 2007 Banksy si reca in Palestina per dipingere sui muri. Qualcuno si offende per un dipinto raffigurante un soldato israeliano che controlla l’identità di un asino. Un tassista locale decide di tagliarlo e venderlo in Occidente. Questa è la storia della prospettiva palestinese e la reazione alla street art attraverso il lavoro del suo eroe più famoso. La storia di un mercato nero illegale di arte rubata dalle strade di tutto il mondo, culture che si scontrano di fronte a una situazione politica insostenibile e infine alla mutevole percezione della street art. Non è una storia, ma molte. Come l’arte di Banksy sarebbe priva di significato senza il suo contesto, così l’assenza di essa sarebbe priva di significato senza una comprensione degli elementi che hanno portato le sue opere d’arte da Betlemme a una casa d’aste occidentale, insieme al muro su cui è stato dipinto.

 

 

Italia 2018 – 1h 30′

Rubare legalmente arte realizzata illegalmente. Che paradosso. Eppure se si tratta di street art la contraddizione calza a pennello, anzi non potrebbe che essere tale. È la voce disobbediente di Iggy Pop a introdurci nella questione, una delle molteplici che animano il denso documentario The Man Who Stole Banksy (L’uomo che rubò Banksy) di Marco Proserpio, ieri nel programma di Festa Mobile al 36° Torino Film Festival.
Ed è proprio il giovane regista a sottolineare che il suo “non è un film sul misterioso nonché geniale artista britannico, il quale ha costituito solo un punto di partenza per raccontare un mondo che ha a che fare – alla fine – con un ritratto della società contemporanea”. Il pretesto è ancorato a un fatto di cronaca avvenuto nel 2007 in Palestina quando il murales realizzato da Banksy a Betlemme presso il varco della West Bank del muro divisorio fu rubato, anzi “smurato” dalla facciata ove poggiava. Mandatario del furto “legittimo” dal suo punto di vista è il proprietario delle mura ove l’artista si è espresso, pitturando il noto due formato da un soldato israeliano e un asino. Convinto che lo street artist più famoso del mondo l’abbia realizzato per il bene del popolo palestinese, tale personaggio si è preoccupato di vendere l’opera al miglior acquirente con l’intenzione di destinare parte degli introiti ai campi profughi. Dallo “smuramento” è iniziato un periplo infinito dell’ “asino di Banksy” e delle sue 4 tonnellate di cemento che lo sorreggono da Betlemme a Londra passando per New York fino a un’asta sempre nella capitale britannica dove è rimasta invenduta. Perché tale, forse, è il suo destino: non essere rimossa dal contesto dove è stata pensata dall’artista nella consapevolezza della sua natura effimera.

Ma se questa è l’opinione di Proserpio, che ha impiegato ben sei anni per ultimare il film non è detto coincida con quella dei suoi intervistati, che anzi manifestano convinzioni distanti se non talvolta divergenti sul tema. Se Iggy Pop, perfetto a commentare ironicamente la parabola dell’asino di Banksy, è stata una “prima scelta” e subito ha accettato di prestare la sua voce, dal punto di vista del giovane regista milanese è stata la storia a scegliere di imporsi nella sua vita e non viceversa. “La prima volta che sono entrato in Palestina ho incontrato il taxista Wallid (detto “Wallid la bestia” essendo un accanito fan di body building…) che mi ha raccontato la vicenda di cui mi sono immediatamente appassionato”. Wallid stesso è stato fra gli esecutori dello “smuramento” per conto del proprietario delle mura che poi – con i lauti guadagni – si è aperto il “negozio di Banksy”.
Insomma un circolo vizioso che diventa nello sguardo degli autori (fra essi anche Filippo Perfido e l’artista Christian Omodeo un’acuta e lucida riflessione di filosofia (est)etica sul senso di fare arte oggi, del suo (ormai ricchissimo) mercato, dell’immanenza o della transitorietà della street art, e dunque sulla necessità od opportunità che venga “salvata” e conservata o meno, considerando che per esse non esistono “certificazioni d’autore”. Quanto a Banksy, che mai si vede ma almeno nel doc si sente con una dichiarazione, nessuno sa se abbia visto il film, di certo lo ha visionato il suo entourage che ne ha dato il benestare affinché il misterioso artista potesse almeno “fantasmaticamente” comparire.

Anna Maria Pasetti – ilfattoquotidiano.it

“Più che un racconto, L’uomo che rubò Banksy è stato “inseguire una storia che si auto-alimentava, che diventava qualcosa di diverso proprio mentre la inseguivamo”. Il regista Marco Proserpio ha presentato al Torino Film festival 2018 il suo esordio, un documentario che parte dal murales che Banksy dipinse a Betlemme nel 2007, raffigurante un soldato che chiede i documenti a un asino, e riflette sulle contraddizioni insite nell’opera dell’artista e nella street art in generale, sulla sua natura e sul suo valore, sul rapporto mutevole e sfuggente con il pubblico e con l’arte in generale.
“Ero a Gerusalemme in un taxi vicino a un check-point e ho conosciuto Walid, il tassista, che mi ha raccontato di aver appena rimosso il muro su cui aveva dipinto Banksy per venderlo. Da lì mi sono venuti in mente una serie di aspetti interessanti sulla proprietà, la disponilità dell’arte, il valore di un’opera illegale e senza autore, ma anche sulla Palestina e sul contesto in cui si crea arte”.

Questa serie di riflessioni ha fatto partire ricerche e incontri che hanno impiegato 6 anni circa per diventare un film. Incontri di cui Proserpio ha voluto tenere conto dando voce a tutti quanti avessero un ruolo nella lavorazione, vendita o collezione di opera di street art: “La pluralità è una delle regole base della strada e io l’ho rispettata facendo parlare i vari lati e le varie facce della questione, esperti, critici, galleristi, proprietari eccetera”. Ma altrettanto importante è il ruolo politico dell’arte e dell’opera di Banksy e la Palestina, raccontata fuori dagli schemi tradizionali della guerra e della vittima, è un luogo ideale in cui approntare ulteriori riflessioni: “Siamo tornati in Palestina molte volte, perché il fatto che l’opera non avesse certificati, documenti, identità certe anche per quanto riguardo i compratori ha fatto sì che il centro della storia lo perdessimo varie volte, era indipendente da noi, costringendoci a vari escamotage (tra cui inventarsi un finto trailer e finte recensioni del film) per ritrovarla”.
Un film punk, in cui Banksy è solo un’esca e la forma viene solo dopo il contenuto, e che in nome di questa attitudine può vantare la voce di Iggy Pop come narratore: ”Ha una voce suadente e rassicurante, in contrasto ironico con il ritmo del film e poi ci sembrava fosse simbolico dello spirito del nostro film”. L’uomo che rubò Banksy più che documentare, sceglie il cinema e la forma documentaria come terreno di riflessione, spazio saggistico aperto a più voci, che pone molte domande ma non dà risposte: “Non abbiamo ancora una chiara posizione sulle questioni che abbiamo posto. L’unica cosa da fare è continuare a cercare e riflettere”.

Emanuele Rauco – cinematografo.it

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