La ragazza d’autunno

Kantemir Balagov

Leningrado, 1945. La guerra è finita ma l’assedio nazista è stato feroce e la città è in ginocchio. Iya è una ragazza bionda, timida e altissima, che ogni tanto si “blocca” per un trauma da stress. Lavora come infermiera in un ospedale e si occupa del piccolo Pashka, figlio della su amica Masha. Quando questa torna dal fronte un dramma insanabile metterà a dura prova l’esistenza delle due donne. Alla seconda regia Balagov ribadisce l’intensità estetica ed etica del suo cinema, capace di comunicare qualcosa di universale eppure rarissimo come l’empatia… 

Dylda / Beanpole
Russia 2019 (124′)

CANNES 72° – A certain regard: premio miglior regia
TORINO 37°: premio migliori attrici (Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina)

 TORINO – Già protagonista nel 2017 di uno dei più incredibili esordi della storia recente del cinema (quel Tesnota presentato a Cannes 2017 e insignito del premio per la miglior regia in A certain Regard e premio FIPRESCI) il giovanissimo regista russo Kantemir Balagov, 27 anni appena compiuti, ritorna quest’anno con Dylda (Beanpole per l’uscita internazionale, La ragazza d’autunno per quella italiana prevista a gennaio) confermando il talento creativo e la maturità tecnica della sua direzione (di nuovo premiato per la miglior regia a Cannes!).

 E tuttavia i due film non potrebbero essere più diversi. Tesnota era un film notturno, claustrofobico, angosciante, storia di un rapimento e di un riscatto ambientato (l’anno è il 1998, epoca della guerra in Cecenia) nella piccola comunità ebraica della repubblica nord-caucasica del Kabardino-Balkaria. (sono le origine del nostro che nella cui capitale, Nalchik, si è formato alla scuola di cinema di Alexander Sokurov).
In Beanpole invece (anche grazie evidentemente a maggiori mezzi produttivi) l’orizzonte di Balagov si apre alla grande città, Leningrado, e al grande evento storico, la seconda guerra mondiale con le sue conseguenze nel corpo e nell’anima della patria russa. Iya, la spilungona, la ’giraffa’ del titolo, è un’eterea donna nel fiore dei suoi trent’anni che lavora in un ospedale militare della città. È evidentemente affetta da PTSD (Post Traumatic Syndrome Disease), comune a tutti i sopravvissuti ad eventi catastrofici come guerre o disastri naturali e divenuta di dominio comune dopo la guerra del Vietnam. È quindi soggetta a svenimenti, blocchi motorii, attacchi di panico che però non le impediscono dì dedicarsi e di trovare una ragione di vita nell’assistere gli ospiti dell’istituto, struttura che a volte somiglia più a un manicomio o ad un lazzaretto che a un luogo di cura; autolesionismo, suicidio, follia, suppliche di eutanasia sono all’ordine del giorno. A casa (e a volte anche all’ospedale, dove lo accompagna spesso) Lya si occupa di un bimbetto di 6 anni, Sasha, che nel (tragico) corso del film scopriremo essere figlio non suo ma dell’amica del cuore Masha. La quale, tornata dal fronte, piena di rabbia e di desiderio di vendetta, va vivere con lei quasi a costituire una specie illusoria di famiglia. Senonché un terribile evento (no spoiler!) rivelerà tutta la disperazione e l’egoismo di quest’ultima, che arriverà a chiedere all’amica un estremo quanto assurdo ed inutile sacrificio…

Fin qui la vicenda, che obiettivamente fatica a reggere le due ore e diciassette minuti del film. Ma a rendere il tutto cinematograficamente riuscito interviene la mano geniale di Balagov, coi suoi primi piani, le sue lunghe concitate carrellate, come ad inseguire i suoi personaggi. Dal punto di vista figurativo, il film può configurarsi diviso in due parti; nelle poche scene di esterno della città affamata e distrutta, così come nei corridoi del nosocomio, tutto è di un bianco livido, lattiginoso, a stento illuminato da un pallido sole. La città è morta, nessuno crede più in niente se non a sopravvivere in qualche modo; è la Chernobyl dell’anima di una nazione. Unica nota di umanità, i tristi giochi del bambino (“fai il cane” – gli dice un ricoverato, lui rimane muto. “E come potrebbe – interviene un altro – ce li siamo mangiati tutti”) o i goffi tentativi di corteggiamento dei malati nei confronti delle due donne.

Ma è nelle scene d’interno dell’appartamento di Iya e Masha, luogo deputato della normalità e degli affetti, che si dispiega tutto il genio della cinematographer Ksenia Sereva (anche lei giovanissima) e della coppia scenografo (Sergey Ivanov) e costumista (Olga Smirnova). È un trionfo cromatico di gialli e rossi caldi, pittorici, che fanno pensare agli interni delle chiese ortodosse e addirittura alla tradizione della pittura europea dell’800; a restituirci appunto il ricordo di un mondo, di una città che una volta era viva e adesso appare come avvolta in un sudario.


Vale anche la pena ricordare che qui, come nel precedente film di Balagov, il produttore è quell’Aleksander Rodniansky che già aveva seguito il cammino di Andrea Zvjagintsev autore di Leviathan e Loveless, che sembra ormai divenuto quasi un nume tutelare del cinema e degli autori russi di grande futuro e respiro internazionale. Pur se inferiore a Tesnota per intensità (più disunito, a volte compiaciuto e un po’ di maniera), Beanpole resta comunque la pregnante testimonianza di un talento da cui c’è ancora molto da aspettarsi.

 Giovanni Martini MCmagazine 53

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