Cafarnao – Caos e miracoli

Nadine Labaki

L’odissea di un ragazzino di 12 anni che denuncia i suoi genitori per averlo messo al mondo. Un mondo che conosce attraverso offese e umiliazioni, le bidonville a Beirut, accudendo a un neonato e incontrando l’umanità peggiore. Labaki con Zain, narra un poema neorealista senza cedere al ricatto sentimentale. Un’opera struggente ed emozionante.


Capharnaüm
Libano/Fra/USA 2018 (123′)
CANNES: Premio della Giuria

 

    Cafarnao, nome di una città inferno maledetta da Gesù nei Vangeli, racconta la non epica odissea di un 12enne per le strade più sporche di Beirut, fra gli individui più loschi, nelle situazioni più umilianti in un flashback che parte e torna nel tribunale dove il ragazzo si deve difendere dall’accusa di aver accoltellato un uomo. All’inizio del potente film di Nadine Labaki (E ora dove andiamo?), straziante e raziocinante insieme, premio a Cannes, il piccolo Zain dagli occhi senza speranza denuncia i propri genitori con l’accusa (semiesistenzialista) di averlo messo al mondo. Neanche fosse Camus: nato inutilmente, dice, fra povertà, difficoltà, insulti alla dignità. Tutto sulla pelle viva di persone prese dalla strada. L’avvio stordisce per il colpo di gong che annuncia alla nostra coscienza: non è ricattatorio perché allora lo sarebbe anche la maggior parte del neo realismo con ragazzini tra macerie morali e materiali. Zain, nella vita profugo siriano che ora vive in Norvegia e, ritrovata la sua età va a scuola, percorre nel film le baraccopoli di Beirut, badando a un neonato che la madre etiope senza documenti ha abbandonato mentre la regista sulle ali di musica, dei droni e ralenti, si alza su un panorama infinito morale scomparso, murato vivo per i molti invisibili senza patria. Zain Al Rafeea è la ragione etica del film, lo sostiene come se avesse frequentato l’Actor’s Studio: invece viene tutto da un dolore privato che i suoi occhi raccontano dallo schermo

Maurizio Porro – corriere.it

 

  Creata negli anni Ottanta per definire il fenomeno dello sfruttamento mediatico dei più disagiati, l’espressione ‘Poverty Porn‘ è a volte applicata con eccessivo moralismo. Vedi nel 2008 il caso del film (8 Oscar) The Millionaire, da alcuni demonizzato per aver offerto l’immagine di un’ India miserevole a uso del gusto esotico – pauperistico del pubblico occidentale; e vedi ora il caso di Cafarnao, bollato da svariati critici come retorico e ricattatorio. Il facile sensazionalismo in auge nella nostra epoca giustifica tanta diffidenza, tuttavia a noi non sembra che la povera Nadine Labaki abbia speso sei mesi di lavorazione fra slum e tendopoli al semplice scopo di ingraziarsi spettatori e giurie dei festival. Come già si evinceva dalla commedia d’esordio Caramel, il cinema della attrice/regista libanese non vanta certo potenza di stile: è piuttosto un cinema che punta al cuore, e Cafarnao (significa «luogo di gran confusione», dal nome di una movimentata cittadina della Galilea dove soggiornò Gesù) è giocato proprio su questo registro di calore umano. Si parte sullo spunto (in effetti (…) Ritagliandosi un ruolo-cammeo di avvocato, Labaki guida con sensibilità un cast di non attori, a cominciare dall’incantevole protagonista, che è davvero uno dei milioni di affamati e abusati, privi di identità e istruzione di quel cafarnao che è il mondo attuale. Che un film gli dia voce provando a scuotere le nostre intorpidite coscienze è davvero riprovevole?

Alessandra Levantesi Kezich – La Stampa

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