Chi scriverà la nostra storia

Roberta Grossman

Tratto dall’omonimo libro dello Storico Samuel Kassov, ecco un film davvero “finalizzato all’obiettivo”: produrre e conservare memoria! Così Roberta Grossman ci riporta nel novembre del 1940 quando i nazisti rinchiusero 450 mila ebrei nel ghetto di Varsavia. Una compagnia segreta composta da giornalisti, ricercatori e capi della comunità, guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e conosciuta con il nome in codice Oyneg Shabes (“La gioia del Sabato” in yiddish), decise di combattere le menzogne e la propaganda dei nazisti non con le armi e con la violenza, ma con carta e penna.
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Who Will Write Our History
USA 2018 – 1h 35′ 

Oyneg Shabes sono due parole misteriose che il mondo, forse, imparerà a conoscere. In yiddish significano “la gioia del sabato”. È il nome dell’organizzazione clandestina fondata da una sessantina di intellettuali ebrei nel ghetto di Varsavia assediato dai nazisti. Chi scriverà la nostra storia, il film di Roberta Grossman in uscita in Italia il 27 gennaio per il Giorno della Memoria, distribuito da Wanted Cinema, racconta fra preziosi spezzoni documentari e una parte narrativa ricostruita con attori la storia dell’archivio segreto che Oyneg Shabes organizzò e seppellì nel sottosuolo della città. A Milano, il primo a proiettarlo è stato il Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale, là da dove partivano i treni blindati per i campi.

In quelle casse ritrovate sotto le macerie c’erano diari, poesie, disegni, fotografie, ma anche editti di guerra diramati dai nazisti, e alcune delle fasce con la stella di David che gli abitanti del ghetto erano costretti a portare al braccio. Emanuel Ringenblum, lo storico che fu l’anima del progetto, fucilato il 7 marzo 1944 con la moglie Yuditha e il figlio bambino Uri, si rese conto prima degli altri che la fine della una volta fiorentissima comunità ebraica di Varsavia era vicina, e che con un futuro tragico all’orizzonte non si poteva permettere che fossero i nazisti a raccontare la storia degli ebrei polacchi. Il suo motto era «moriremo combattendo, non ce ne andremo in silenzio», e anche «innalzeremo la bandiera della cultura». Nella città strangolata dalla miseria e dalla morte (l’equivalente di 60 dollari il prezzo di una pagnotta al mercato nero, unico mezzo di sostentamento le zuppe delle cento mense collettive, 100 mila, alla fine, il numero stimato di abitanti del ghetto morti per stenti o malattia prima delle deportazioni di massa, su un totale di circa 500 mila) Ringenblum diffuse un appello alla testimonianza scritta. E la città si mise al lavoro: stremata, debole, ma con un compito da portare avanti. Uno scopo di vita che l’accompagnò fino al grande sterminio del 1942 e alle deportazioni verso Treblinka.
Lì dentro ci finì di tutto: brani di opere teatrali, barzellette, testi di canzoni, saggi, racconti. Accanto a Ringenblum (la voce che legge le sue parole è, nella versione originale, di Adrien Brody), il film rievoca Rachel Auerbach (le dà voce Joan Allen), la giornalista che più lo aiutò e che, sopravvissuta alla guerra, provò l’emozione di aprire le cassette dell’archivio. Il primo giacimento fu localizzato poco dopo la liberazione di Varsavia in modo fortuito, visto che la città era tutta distrutta, prendendo a riferimento la guglia di una chiesa cattolica. Il secondo venne trovato per caso nel 1950 da un gruppo di operai al lavoro. Un terzo potrebbe trovarsi sotto l’ambasciata cinese, ma deve ancora essere dissepolto.

I documenti, circa 60 mila pagine, sono conservati in gran parte al POLIN, il museo di Varsavia sulla storia degli ebrei polacchi, e anche se l’archivio è stato inserito nel Registro della memoria del mondo dell’Unesco (terzo contributo della Polonia con le musiche di Chopin e i libri di Keplero) finora è stato conosciuto soprattutto in ambito accademico. La regista, già autrice di Hava Nagila e di Above and Beyond, sulla nascita dell’aviazione israeliana, si augura «che il film cambi la situazione, rendendolo accessibile a milioni di persone. Di fronte a una storia come questa, mi sono fatta tre domande. È stata raccontata prima? Aggiunge un aspetto importante alla ricostruzione della Shoah? Ma la domanda decisiva è stata la terza: potrei mai vivere in pace senza averla raccontata?».

Egle Santolini La Stampa

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