Ema

Pablo Larrain

Ema, giovane ballerina, decide di separarsi da Gastón dopo aver rinunciato a Polo, il figlio che avevano adottato ma che non sono stati in grado di crescere. Per le strade della città portuale di Valparaíso, la ragazza va alla ricerca disperata di storie d’amore che l’aiutino a superare il senso di colpa. Ma Ema ha anche un piano segreto per riprendersi tutto ciò che ha perduto.


Cile 2019 (102′)
VE 76° – Arca CinemaGiovani: miglior film

Laugh and the world laughs with you
Cry and you cry alone
It’s something they’ll try to tell you
When they’re dishing out the pills
Years go by like hurricanes
Years go down in flames
Wax Tailor – Down in flames

 VENEZIA – A partire dal provocatorio interrogativo senza risposta esposto da Freud a proposito dell’analizzanda Marie Bonaparte riguardo l’inafferrabile dimensione desiderante della donna (Che cosa vuole una donna?), il femminile incarna un mistero verso il quale l’indagine non si concretizzerà mai in un risultato conclusivo o, quanto meno, sufficiente a dirimere la pretesa di volere continuare ad esplorare. .


    Se la configurazione del sogno è di per se stessa un’espressione del desiderio, il cinema è ancora una volta uno strumento dal valore inestimabile per coniugare le membra brumose del mistero inestricabile legato alla condizione umana e alla volontà ad essa legata. E non a caso, laddove le strutture vacillano maggiormente, l’ardimento di produrre rimedi si intensifica. Nell’ esplorare quindi le filmografie alla ricerca della centralità del femminile si arriva a una frammentazione che talvolta riecheggia la centralità di aspetti vividi, scomodi, addirittura salaci. A volte come mero uzzolo provocatorio, altre come perspicuo interrogativo, consapevole e limitato, verso la possibilità di composizione di un orizzonte di reazioni.
Il pregresso autoriale di un artista di sicuro può essere uno stimolo per comprendere una direzione prediletta ed è in parte grazie a questo trascorso che sarebbe opportuno osservare l’ultimo film di Pablo Larrain. Convergendo però l’attenzione non verso la soddisfazione di una preclara aspettativa, ma proprio in opposizione ad essa. Perché Ema vuole proprio scombinare le carte di ogni conciliante sistematicità: allontanandosi geograficamente da Jackie per tornare in patria, lontano da qualunque ricostruzione storica (No – I giorni dell’arcobaleno), illustre biografia (Neruda) o considerazione politica (Post Mortem). Per la prima volta immerso nella contemporaneità. La Valparaiso dei nostri giorni non è forse meno buia di quella degli anni del terrore di Pinochet, si respira una consequenziale frenesia libertaria ma al contempo anche un’angoscia persistente per un futuro tragico, sgretolato, perituro: l’idea di un mondo nel quale tutto è esposto e tutto è a disposizione, un mondo interamente risolto nell’equivalente generale e fantasmatico di un desiderio infinito, che però manca sempre il proprio soddisfacimento.


Da qui nasce la figura della ballerina Ema, nella sua ricerca sconfinata di un approdo, di una forma di soddisfacimento di un desiderio che non è foriero soltanto di frustrazione, ma simbolo di una tensione verso ciò che si sottrae a ogni reale scambio possibile. Come sostiene Metz in rapporto a Lacan: “il desiderio come puro effetto di mancanza e inseguimento senza fine”. Ema difatti è madre, sorella, figlia, amante, moglie, amica e ballerina. La natura quindi, nel suo insieme, è racchiusa nella nelle fattezze di un corpo che è simulacro di ogni istintualità. E quale compito pertiene alla natura se non tendere all’adempimento della propria espressione, attraverso l’indagine e la scoperta di quel mistero che sembra sempre mancare, sfuggire, rivoltarsi – almeno sul piano dell’immaginario – per realizzare un dialogo verso un Altro intimo e sconosciuto?
Prendendo questa direzione, il cinema di Larrain si complica, non è più quello di prima – nonostante fosse già chiaro l’intento di ogni suo film di non ripetersi – e la rivoluzione, per essere tale, si compie dalle basi, e la forma di Ema è quell’elemento nel quale è più difficile districarsi e abbandonarsi, proprio perché intrinsecamente legata all’inconscio, alla libertà e all’archetipo. Il personaggio Ema è un soggetto destrutturato. Una forma incandescente, fluida, che cola, prende forme diverse, si rimodella, riempie superfici, invischia, amalgama, ricopre con la sua corporeità. La sua presenza permanente e indelebile la rende una fonte di un desiderio incontenibile: condensa nel movimento, nella danza, una espressività nuova e inafferrabile, ed è forse per questo che nulla le rimane attaccato troppo a lungo. Gli affetti, i desideri, gli impulsi in genere, sono per lei dei passaggi di crescita verso una consapevolezza amara e decadente. La stessa consapevolezza che è impossibile rintracciare in questo presente.


Nel fulgore del tempo attuale Larrain è il regista in grado di assumere un punto di vista rivoluzionario e slegato dai codici dell’osservatore solo apparentemente disilluso. Senza cercare il compiacimento o la consolazione delle massa. La maestria sta lì, nel non volersi far volere bene, nello sfuggire ogni possibile certezza di divenire un marchio di fabbrica. Un prodotto di un sistema che vuole trovare un collocamento di consumo. La contemporaneità, lo scorrere insaziabile degli accadimenti attuali, è tutto un subire immagini e fatti senza per questo avere l’occasione di avviare un processo di significazione che i mezzi di comunicazione tradizionali non sono in grado di assolvere. Allora, il cinema, può ancora riempire un vuoto, se nell’insieme delle sue parti, il direttore, riesce a orchestrare una partitura del mondo odierno. Lo stesso Larrain prova a definire Ema un melodramma condito con suspense ed elementi presi in prestito dal musical e dal videoclip, con una struttura circolare, musicale. Ema si esprime col ballo più che con la parola. Ciò che ottiene Larrain è proprio di filmare un linguaggio differente, seducente e sedizioso. E non per darne una spiegazione o veicolarlo a chi non ne conosce le coordinate, ma per assorbirlo con tutti i suoi contraddittori assilli, il disincanto, la rabbia senza fine e senza sfogo.


Nella rincorsa del significato, del senso di verità, del primato dell’opinione e della propria soggettività, l’arte continua – spesso sterilmente – a insegnare che la forma è molto più che un involucro o uno strumento, ma è il principio che regola lo statuo del contenuto. Pablo Larrain è da sempre maestro del significante, e grazie a esso ha rielaborato il passato fornendone una espressione nuova e con drammatici echi nel presente.
Ema è quel passo ulteriore che lo porta ad osservare il presente, che è pur sempre passato, ma ancora in atto. E per questo non si limita a riutilizzare modelli espressivi dal suo corposo fagotto ma ne modella appositamente uno allo scopo. Qualcosa che non è già strutturato e digerito dall’occhio dello spettatore. Dunque più complesso e disorientante. Non accondiscendente. Contrastante. Così come la coppia formata da Ema e il compagno Gaston. Una coppia consumata e demolita, che non reagisce secondo repliche che fanno capo alla dittatura della morale. Il senso di colpa, l’errore, la tensione e l’avversione sono il contorno ossessivo dal quale cercare di fuggire alla ricerca di una soluzione impossibile. E il reggaeton con il suo dozzinale e primordiale tum – cha tum cha, tum – cha tum cha fornisce esattamente questa possibilità eversiva e salvifica.


Il compositore e musicista Nicolas Jaar si inventa un suono spurio e ansioso, un soggetto lavico che accoglie tutta la peculiarità dei suoni moderni in un beat ossessivo e pungolante, germinale e strafottente. E dalla colonna sonora alla narrazione non c’è scarto alcuno: anch’essa incede per pause e frammenti nevosi, incoerente, adoperando schegge di dialoghi e campi e controcampi avulsi ed evanescenti. Larrain procede a movimenti, in senso coreografico e musicale, dal montaggio alla messa in scena. La macchina da presa non si limita a filmare una coreografia ma produce una sua stessa fantasmagoria, una produzione di senso che ha assunto in sé il movimento come espressione, allo stesso modo della musica, che è la partitura di tutto il movimento, apparente, e costitutivo, del film. Il contrasto è esplicito, appunto, il reggaeton è un suono pulsionale, vitale, ma fastidioso, difficile da accettare (“Ballate quella merda, ma il reggaeton è come andare a vivere a Ibiza, è come scopare e fare festa e il giorno dopo tornare al lavoro”, sostiene Gastón), e forse anche da comprendere, soprattutto se non si appartiene alla generazione che ne ha assunto le sue caratteristiche.


Come ci ricorda la Signora Ceppo di Lynch (Fuoco cammina con me): “Quando si accende un fuoco simile a questo, è molto difficile spegnerlo: gli esili rami dell’innocenza bruciano per primi… poi si leva il vento e allora tutto il bene che uno ha dentro è in pericolo”. Ema appicca incendi col suo lanciafiamme. E balla. Si libera, appunto di un’innocenza, che la vuole costretta dentro modelli rassicuranti e ammissibili. In questo modo però, può rivelarsi incline a un’ingiustificabile nequizia, la quale ci racconta quello slancio necessario per ammettere di dialogare col proprio inconscio. Un dialogo che è appunto movimentato, come la foga del ritmo compulsivo e torrido del reggaeton. La distruzione è emblematica: le fiamme accecanti e ipnotiche dei roghi racchiudono la voglia di disfarsi di tutto. L’esegesi è compenetrante: il film, la vita, il cinema, la protagonista, sono tutti elementi di un discorso unitario. Larrain va oltre ogni schema stabilito. Saluta il suo cinema consolidato e ormai premiato, dal pubblico e dalla critica misoneista, che difatti storce il naso, non capisce, non sa più dove aggrapparsi, non trova le coordinate, grida allo scandalo, si indigna per l’amoralità. Ancora una volta lo spreco delle parole non cessa e si perde nella proliferazione di giudizi secondo le tanto care caselle della correttezza, della necessità, del rigido schematismo di valori che per qualche ragione devono appartenere all’essere umano. Un po’ come accadde alla Carmen godardiana, anch’essa portatrice di un’indipendenza dal maschile e in lotta con la propria volontà. Di Godard si sente anche la raffinata ricerca figurativa: dal dialogo dei colori (in questo caso fluorescenti) che riempiono quadri di impressionate immersione visiva, alla perfezione dell’immagine e la bellezza dei corpi, fino alla precarietà delle parole; perché i film pensano senza bisogno di parole.


La libertà, secondo una accezione più pura che realistica, sta proprio nella totale assenza di ogni forma di controllo. L’abilità di Larrain – e non è cosa da poco – è aver saputo raccontare e tradurre una mancanza e orchestrare, in definitiva, un libero soddisfacimento istintuale. Da sempre affascinato dalle distorsioni delle personalità disturbate, Ema, a sua volta, incarna un disturbo. Il disturbo del desiderio che non si compie e non di compirà mai, ma senza la spinta del quale, non ci può essere soggetto alcuno.

Alessandro Tognolo – MCmagazine 52

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