In the Mood for Love

Wong Kar-Wai

Tra il signor Chow e la signora Chan vicini di casa, si insinua il sospetto che i rispettivi coniugi siano amanti. Tra i due nasce un rapporto di complicità sempre più intimo che sfocia in un amore impossibile da consumare ma destinato a segnare le loro vite. Una narrazione dilatata che privilegia le ellissi, immagini reiterate con immensa eleganza, un sottofondo musicale avvolgente. Un capolavoro senza tempo.

Hong Kong 2000 (98’)
CANNES 53° – Premio miglior attore

Maggie Cheung che cammina, divina ed elegantissima; Tony Leung affascinante e assorto con l’immancabile sigaretta tra le dita. Tutto rigorosamente al ralenti, con in sottofondo l’avvolgente Yumeji’s Theme di Shigeru Umebayashi o le note di Quizás,Quizás,Quizás cantate da Nat King Cole, a sottolineare una passione che non può essere sfogata. Bastano queste immagini, reiterate con immensa eleganza in un film che racconta l’amore senza la necessità di esibirlo, a consacrare il miglior lungometraggio di Wong Kar Wai nell’immaginario cinematografico del Nuovo Millennio. Il regista abbandona il postmodernismo convulso dei precedenti film (Angeli perduti del 1995, ne è un esempio) a favore di una narrazione dilatata che privilegia le ellissi, senza trascurare virtuosismi tecnici sapientemente dosati. La sua è una costruzione perfezionistica dello spazio che si sofferma continuamente sui dettagli, mentre la slow motion si fa correlativo oggettivo dei sentimenti. In una Hong Kong dal fascino retrò rappresentata quasi esclusivamente per interni (eccetto per il bellissimo epilogo ambientato al tempio di Angkor Wat, in Cambogia), Leung e la Cheung sono meravigliosi e sprigionano sensualità a ogni frame. Wong riaggiorna così il mélo e ci consegna un cult assoluto, presentato in concorso al 53° Festival di Cannes dove ha vinto il premio per il miglior attore (Tony Chiu Wai Leung) e il Grand Prix tecnico (alla magistrale fotografia di Christopher Doyle e Ping Bin Lee e al montaggio di William Chang).

longtake


«Gli anni Sessanta sono un momento molto importante nella storia di Hong Kong, e forse sono stati la principale ragione per fare questo film. C’era molta gente arrivata lì dalla Cina nel ’49 che ha lasciato la sua impronta, libri, cultura, abitudini, continuando poi a muoversi per timore del corso politico. È un periodo che conosco bene, volevo restituirne le emozioni che oggi non ci sono più. Anche per questo ho deciso di girare a Bangkok, Hong Kong nel tempo si è trasformata molto velocemente, era impossibile ritrovare le immagini di allora».
Diceva questo Wong Kar-wai a Cannes nel 2000, dopo la presentazione (in concorso) di In the Mood for Love, colpo di fulmine istantaneo sulla Croisette – e successo planetario che aveva reso il regista di Hong Kong quasi una rock star. Il duetto emozionale tra Tony Leung – che vinse il premio per il miglior attore – e Maggie Cheung, ballerini di un musical dei sentimenti in cui a danzare è la macchina da presa che ne cattura frammenti di corpo, le spalle, le mani, gli sguardi, la sigaretta tra le dita, il fruscio dei vestiti seguendoli al ralenti tra i corridoi stretti, quando si incrociano nelle scale o in strada sotto alla pioggia, talvolta senza neppure vedersi, davanti al tavolo di mahjong, spiati dagli occhi impiccioni degli altri inquilini della casa, in una solitudine che sembra il loro destino. Quell’universo stretto di stupore e adorazione per le novità che arrivano dall’estero, di pettegolezzi, silenzi, pettinature all’ultima moda, canzoni di Nat King Coleera dunque stato un po’ anche il suo: nato a Shanghai (nel 1958) a Hong Kong era arrivato bambino, le trasformazioni di esseri umani e cose che sono la storie dei suoi film raccontano quello che passa, lo sfiorarsi per poi perdersi.

Ne rimase persino un po’ intrappolato in quel film Wong Kar-wai, tanto che il successivo, 2046 (2004) realizzato con fatica, porta il titolo del numero della stanza d’albergo dove il personaggio di Tony Leung di In the Mood for Love si rifugia. Anche se lui era già conosciuto, c’era stato prima Happy Together, un altro successo, andando indietro, alla fine degli anni Ottanta (1988) As Tears Go By aveva già catturato gli sguardi più allenati anticipando il segno di un grande regista.
Rivedere In the Mood for Love oggi, a distanza di vent’anni, non cambia niente del suo fascino e della sua invenzione (…)Perché il film di Wong Kar-wai – tra i registi più amati da Bertolucci e che nei suoi «maestri» mette Truffaut e Antonioni  – è un magnifico gesto di cinema in una narrazione di immagini, che crea nella forma, nei colori, nei cromatismi emozionali degli abiti di Cheung e nella geometria di cravatte e completi di Leung, nella canzone che dice del loro destino un melodramma appassionato e minimale, l’amore nato sulla messinscena di un tradimento e di una felicità domestica, che poi diviene una relazione la cui potenza cresce tanto più è negata…

Cristina Piccino – il Manifesto


Tutti o quasi crescono. Anche Wong Kar-Wai con In the Mood for Love. Cresce, il regista di Hong Kong, perché rinuncia al pur interessante sperimentalismo delle sue opere precedenti. Cresce perché si lascia alle spalle la tempesta erotica di Happy Together e sceglie un tono intimo, pudico, ellittico, come chi conosce veramente i giochi dei sentimenti e può fare a meno di gridare. E così, al suo settimo film, racconta una storia d’amore e d’amore soltanto. In the Mood for Love, come dice una bella vecchia canzone, e solo nello stato d’animo per l’amore, che non si concretizza mai, ma resta un sentimento che cambia le vite. Sarà l’ambientazione nella più semplice e severa Hong Kong cinese degli anni 60 a rendere così casto e delicato il film, o lo sguardo di un figlio cresciuto in anni più turbinosi nei confronti degli amori dei coetanei dei suoi genitori? Maggie Cheung e Tony Leung vivono fianco a fianco, in due minuscoli appartamenti della casa della signora Suen, che passa il tempo a giocare a MaJong, a cucinare e a sorvegliare affettuosamente, come fossero pezzi del suo gioco, i movimenti dei suoi inquilini. Lui lavora in un giornale, lei in una società di esportazioni. Ogni tanto si tengono compagnia, perché i due rispettivi coniugi sono spesso assenti anzi, grazie a un brillante equilibrismo della cinepresa di Christopher Doyle, che si muove da prestidigitatore negli spazi piccoli e claustrofobici della casa non li vediamo veramente mai. Finché succede che da piccoli segni un regalo uguale, una stessa cravatta i due amici capiscono che tra i loro rispettivi coniugi c’è una relazione, e dalla solidarietà di esclusi nasce un sentimento d’amore che si sviluppa tra brevi incontri, grandi piogge, orari di ufficio, gossip del vicinato, cibo precotto, buona educazione piccolo borghese e non approda ad altro che alla tenerezza.


Ricordare è meglio che vivere? Certo esce più intensità da questo film di un amore non realizzato che da tanto eros a gogò. Ma è la preziosa combinazione di elementi a fare di In the Mood for Love una bella esperienza: Maggie Cheung, elegante e sottile come un giunco nei suoi mille vestitini orientali che sono un arpeggio sullo stesso tema, trasmette la febbrile sofferenza dell’abbandono subito e dell’abbandono che esita a concedersi, mentre Tony Leung, con la gentilezza di sempre, ha il coraggio di teorizzare che ricordare è meglio di vivere. Coraggio che, del resto, gli ha riconosciuto il Festival di Cannes, conferendogli il premio per la miglior interpretazione maschile. E Wong Kar-Wai sfoggia un’inaspettata tenerezza nel giocare con il retrogusto malinconico delle cose che avrebbero potuto essere e non sono state, delle vite che avrebbero potuto cambiare e sono rimaste uguali salvo il piacere malinconico della memoria.

Irene Bignardi – La Repubblica

 

Lascia un commento