The French Dispatch

Wes Anderson

Vicende e personaggi legati alla redazione parigina del quotidiano French Dispatch, edizione europea dell’americano Evening Sun di Liberty, Kansas. Siamo a Ennui-sur-Blasé, cittadina francese dove ha sede la redazione, che tratta argomenti di vario tipo, da articoli di politica mondiale, fino a quelli di cronaca, toccando temi di cultura generale, come arte, moda, cucina e storie di vita. Quando il direttore del giornale muore, i redattori decidono di pubblicare un numero commemorativo, che raccolga tutti gli articoli di successo che il French Dispatch ha pubblicato negli ultimi anni. Tra questi il film approfondisce tre episodi in particolare: il rapimento di uno chef, un artista condannato al carcere a vita per un duplice omicidio e un reportage sui moti studenteschi del ’68.


USA 2021 (108′)

Wes Anderson continua ad alternare animazione e live action concedendosi, tre anni dopo L’isola dei cani (2018), un ritorno alla direzione d’attori in carne e ossa. E lo fa con un film che si configura fin dalle prime battute come una lettera d’amore al giornalismo e al mestiere dei giornalisti, aliena però da qualsivoglia forma di retorica, irrequieta e incline ad alzare a più riprese la posta in palio. I personaggi che gravitano intorno al quotidiano French Dispatch del titolo, articolati in tre distinte linee narrative indipendenti che compongono le varie sezioni del magazine, sono infatti le consuete maschere del cinema del regista, simili a manichini, o ad abitanti di una casa di bambole perfettamente in vitro, eppure dotati di sentimenti e slanci di umanità inattesi che travalicano le cornici andersoniane e gli incasellamenti di scenografie e fondali storici, reinventati da una lente bizzarra e fantasiosa. A colpire più di tutto, in The French Dispatch, è la smagliante autorialità di Wes Anderson, drogata in questo caso da un forsennato approccio che coniuga consueti movimenti sull’asse, inquadrature in split screen a colori e in bianco e nero, ma anche performance fisiche e disegni animati, che entrano in soccorso nell’ultima parte del film per materializzare i momenti più dispendiosi da un punto di vista visivo e spettacolare. Si tratta, a conti fatti, del film più estremo dal punto di vista arthouse che Wes Anderson abbia mai assemblato, il più scatenato e funambolico sul piano delle trovate e il più restio a compromessi narrativi con lo spettatore. I personaggi, incarnati da una parata di star (Bill Murray, Tilda Swinton, Frances McDormand, Benicio Del Toro, Saoirse Ronan, Willem Dafoe e Timothée Chalamet), non si limitano a omaggiare il giornalismo ma anche i fumetti transalpini e il cinema francofono, a cominciare dall’inquadratura iniziale, che cita sfacciatamente Mio zio di Jacques Tati.

Tra i vari episodi, che si concludono con un bizzarro necrologio per l’impassibile e rigido editore Arthur Howitzer Jr., interpretato da un Murray che dice solo una frase ai suoi sottoposti («Non piangere»), troviamo: The Concrete Masterpiece, su un pittore rabbioso e criminale (Del Toro), la sua musa (Seydoux) e i suoi mercanti (Brody); Revisioni a un manifesto, con Timothée Chalamet e Frances McDormand alle prese con le rivolte studentesche e la presunta imparzialità di un racconto giornalistico sull’energia febbrile, scomposta e idealista della giovinezza; La sala da pranzo privata del commissario di polizia, con, tra gli altri, Mathieu Amalric e una trama all’insegna di una caustica e stilizzata fusione tra haute cuisine, rapimenti e capovolgimenti di fronte, ora teneri e spiazzanti, ora umorali e indispettiti, andando così a rispecchiare e sintetizzare il senso e il tono di tutta l’operazione. I titoli di coda sono costellati da copertine di giornale molto simili a quelle del New Yorker, ai cui articoli e alle cui firme storiche il film, pur ambientato in Francia, è ispirato (la rivista del titolo è infatti americana ma pubblicata, con una tiratura di tutto rispetto, in una città francese immaginaria del XX secolo, Ennui-sur-Blasé).

Giampiero Raganelli – longtake.it

Arthur Howitzer Jr., figlio del fondatore e proprietario del quotidiano “The Evening Sun” di Liberty (Kansas), ha convinto anni prima il padre a finanziare un supplemento domenicale e ha installato la redazione a Ennui-sur-Blasé. Espatriata in Francia, “Picnic” diventa “The French Dispatch” e copre ‘con stile’ la cronaca del paese. Perché intorno alla sua scrivania, Horowitzer Jr. ha raccolto i migliori giornalisti del suo tempo. Archeologi del quotidiano, ‘inseguono’ su campo il soggetto che gli è stato assegnato: una contestazione studentesca che volge in idillio, l’indagine di un commissario sulla pista dei rapitori di suo figlio, un artista psicotico e galeotto innamorato della sua secondina, il necrologio di Arthur Howitzer Jr, che ha posato la penna. E l’ultimo numero sarà un’antologia di articoli, i migliori, dedicata a lui. Si stampi.
Parole che diventano la musica ammaliante di un film che è gourmandise per gli occhi. Ogni inquadratura meriterebbe che ci fermassimo per cogliere tutti i dettagli che riempiono lo spazio e l’universo personale di un autore per cui il cinema è soprattutto arte pittorica. The French Dispatch è una collezione di storie ‘adattate’ dalla gazzetta diffusa nella città immaginaria di Ennui-sur-Blasé. Un album di ‘figurine’ e figuranti nobili ma fissi.

Come in un vero giornale, i registri (cronaca nera, necrologi, società, cultura, cucina…) si succedono compulsivamente, inciampando sul colore, il bianco e nero, il romanzo grafico. L’iperattività del racconto, la sua messa in scena, la composizione dei quadri, la costruzione dei décor, qualche volta si fa estenuante, riducendo la storia a un pretesto, perché The French Dispatch spinge il patchwork più lontano, con le sue piccole storie incastonate, concepite come tanti capitoli visivi, meticolosamente realizzati a colori o a disegni animati. Film inesauribile, che richiede senza dubbio più visioni per riconoscere anche solo i volti delle star (americane e francesi) che appaiono il tempo di un primo piano, The French Dispatch è l’omaggio di Wes Anderson a un mestiere che assomiglia a quello che fu il giornalismo e a un paese che assomiglia alla Francia. Piantata come una ‘casa di bambola’ al cuore di Ennui-sur-Blasé, la sede del giornale ospita una legione di attori (Tilda Swinton, Bill Murray, Owen Wilson, Benicio del Toro, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Lyna Khoudri, Edward Norton, Elisabeth Moss, Frances McDormand, Timothée Chalamet e ancora) venuti dalle due sponde dell’Atlantico anche solo per una replica, una battuta, per essere un frammento o un bagliore dentro un film costruito alla gloria della carta stampata e del cinema analogico.

Impossibile davvero elencarli tutti, come intravederli sullo schermo e in quella parata funebre e malinconica che apre (e chiude) sulla morte del suo flemmatico direttore. Dopo l’elegia mitteleuropea di Grand Budapest Hotel, Wes Anderson edifica le sue scenografie e consacra il suo film al “The New Yorker”, periodico americano fondato nel 1925 e articolato in reportage, critica, saggi, narrativa, satira, commenti sociali e politici, vignette e poesia, e alle sue grandi firme, James Baldwin, Joseph Mitchell, Lillian Ross. L’edificio di Anderson è saturo di accessori, costumi e meraviglie non commestibili esposte come nella vetrina di una pasticceria d’antan. Impossibili da afferrare o da ‘assumere’ perché l’autore sembra aver rotto la relazione con la materia del mondo. Resta la minuzia estetica di un orafo maniacale che pratica la leggerezza di superficie e oppone alla barbarie che gronda sul mondo, il fragile e prezioso baluardo della poesia. E in fondo, The French Dispatch è un altro monumento alla grazia, una boule de neige souvenir di Angoulême che cita più che trasformare il cinema di Wes Anderson.

Marzia Gandolfi – mymovies.it

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