omaggio a Pier Paolo Pasolini

marzo-aprile 2022

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ACCATTONE – Italia 1961 (117′)
Accattone, giovane borgataro romano, vive alle spalle di una prostituta, Maddalena. Quando la ragazza finisce in carcere, Accattone tenta di sostituirla con Stella, una nuova conoscenza, ma poi se ne innamora e così, per mantenere se stesso e la ragazza, prova dapprima di trovarsi un lavoro, poi si affida ad un vecchio ladro per commettere un furto. Con l’arrivo della polizia la situazione precipita: Accattone fugge su una motocicletta ma la sua corsa ha un tragico finale.

Il primo e, forse, il migliore dei film di Pasolini che vi trasferisce la tensione etica e formale dei suoi romanzi sul sottoproletariato romano. È un dramma epico-religioso che tocca il mistero “scandaloso”  (Il Morandini)

La ricchezza – tematica e stilistica – di Accattone costituì il fatto nuovo del cinema italiano alla svolta degli anni sessanta. Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922-Roma, 2 novembre 1975) arrivava al cinema da lontano. Vi scoprì, sintomaticamente, il luogo ideale della sua poetica. La manipolazione della materia visiva era ciò cui aveva, forse inconsciamente, teso fin dal principio, dal tempo delle sue raccolte di versi (La meglio gioventú, Le ceneri di Gramsci, L’usignolo della Chiesa cattolica) e dei romanzi sul sottoproletariato di una Roma, per lui friulano di sentimenti e di educazione, estranea, “magica” e orrenda. Presentando il suo primo film, giustificò con naturalezza (quella che deriva dalle cose sapute da sempre) il passaggio dalle avventure letterarie (Ragazzi di vita, Una vita violenta) all’opera cinematografica che ne riprendeva gli spunti e i personaggi: “Un’immagine può avere la stessa forza allusiva di una parola: perché è frutto di una serie di scelte estetiche analoghe. Fa parte, cioè, di una operazione stilistica”. Lo stile, ossia il superamento della riproduzione mimetica della realtà, che era stato il programma (o, più spesso, il sogno) del cinema neorealistico. Le baracche romane e i suoi abitanti “ preistorici ”, bloccati in un tempo immobile, offrono alla macchina da presa (come prima alla pagina) i segni da comporre in una forma che esprima i fantasmi personali dell’autore, il mondo di una immaginazione “ magmatica ” (il concetto è suo) e decadente. La religiosità di Pasolini trova nella composizione delle immagini (quasi sempre frontali, rigidamente atteggiate, duramente intagliate nei contrasti netti fra sole e ombra) il veicolo per trasferire nell’angoscia e nella “ predestinazione ” dei personaggi il germe della metafora. Il simbolo cristologico di Accattone è la chiave di tutto il cinema pasoliniano, così come la sequenza del sogno contiene già tutte le allucinazioni e le fantasie dei film successivi. Il Cristo venuto a riscattare, con il suo sacrificio, l’umanità dal peccato e dall’errore era stato – in evocazioni allusive – uno dei centri focali della letteratura simbolista fra Ottocento e Novecento. Pasolini lo riprende, tendendolo da una parte fino all’esaltazione mistica (in veste manieristica esplicita) con Il Vangelo secondo Matteo, e dall’altra sino alla personale autoflagellazione. (Fernaldo Di Giammatteo – 100 film da salvare)


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IL DECAMERON – Italia/Francia-Germania 1971 (114′)
Sette novelle del Boccaccio, tutte ambientate a Napoli e dintorni. Nella prima parte fa da legame la storia di Ser Cepperello che, ingannando un prete con una falsa confessione, si vede trasformato in Ser Ciappelletto e adorato come santo. Nella seconda quella di un allievo di Giotto un pittore impegnato ad affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara,.. Andreuccio, si fa derubare di tutti i suoi soldi da una giovane che si finge sua sorellastra, per poi ritrovare la fortuna spogliando dei suoi gioielli la salma di un vescovo. Spacciandosi per sordomuto, Masetti viene accolto in un convento di suore, dalle quali si lascia sedurre, per poi crollare esaurito. Lisabetta, cui i fratelli hanno ucciso il giovane amante, taglia la testa al cadavere per conservarla in casa sotto una pianta di basilico.Caterina e Ricciardo, dopo essersi amati, vengono uniti in matrimonio dagli stessi compiaciuti genitori della giovane. Tingoccio torna dall’aldilà per rivelare al timorato Meuccio che far all’amore non è considerato un peccato. Fingendo di volerla trasformare in cavalla, Danno Gianni si gode la moglie di un ingenuo contadino. L’infedele Paronella induce il marito a entrare in una giara, per impedirgli di scoprire il suo amante, al quale subito si concede.

Della cosiddetta “trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte), è il film più trascinante, ilare e lieto. Come gli altri due, ha al centro l’esaltazione di una felicità e di una vitalità che è soprattutto sesso idealizzate e astoriche, in cui un’incombente presenza di morte ricorda, secondo moduli di tradizione decadentistica, che la conciliazione è impossibile. Orso d’argento al Festival di Berlino il film fu fonte in Italia di roventi polemiche, a destra per le offese al “comune sentimento del pudore”, a sinistra per il suo disimpegno ideologico.”  (Il Morandini)

… Per Il Decameron, Pasolini ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera Il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico.
Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di esser un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele. Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca dei contadini e degli artigiani. L’operazione linguistica, diciamolo subito, è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema. Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh! Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l’atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti. (Alberto Moravia – L’Espresso)


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I RACCONTI DI CANTERBURY – Italia/Francia 1972 (111′)
I componenti d’un pellegrinaggio a Canterbury raccontano a turno delle novelle. Lo studente Nicola conquista la moglie del ricco e collerico legnaiolo Giovanni sfruttandone la superstizione. Alano e Giovanni, due studenti, si vendicano del mugnaio Simkin ladro di farina. Il candido e festoso Perkin viene cacciato da molti padroni finendo esposto alla gogna. La “donna di Bath” distrugge con la sua insaziabilità cinque mariti ereditandone le sostanze. Un impenitente scapolo sessantenne si decide a prendere in moglie la giovanissima Maggio. Un frate sparla di un cacciatore di streghe e questo narra di un frate, condotto all’inferno a visitare il luogo dove sono finiti i suoi confratelli, e di un altro frate cupido delle anime e delle sostanze di un morente. Un venditore di indulgenze racconta una storia surreale e simbolica sui pericoli della cupidigia, poi tenta con scarso risultato di vendere ai pellegrini le sue reliquie.

Della cosiddetta “trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte), è il film più trascinante, ilare e lieto. Come gli altri due, ha al centro l’esaltazione di una felicità e di una vitalità che è soprattutto sesso idealizzate e astoriche, in cui un’incombente presenza di morte ricorda, secondo moduli di tradizione decadentistica, che la conciliazione è impossibile. Orso d’argento al Festival di Berlino il film fu fonte in Italia di roventi polemiche, a destra per le offese al “comune sentimento del pudore”, a sinistra per il suo disimpegno ideologico.”  (Il Morandini)

… Come già per Il Decameron, accade che il prolifico Pasolini – un film l’anno, oltre i saggi, il teatro, la poesia – portando sullo schermo otto novelle di Chaucer, il poeta inglese del Trecento da lui stesso qui interpretato con simpatica ironia, e aggiungendovi qualche siparietto di dubbio gusto, confezioni uno spettacolo per le masse che ha grandi meriti nell’ordine paesistico e scenografico ma che stringe poca sostanza poetica e morale – benché si proponga di dire «grandi verità» tra scherzi e giochi – e nel rapporto fra realistico e fantastico perde colpi (soprattutto nella piuttosto scipita seconda parte). Sicché quel gran senso vitale che il film dovrebbe glorificare a scorno delle ideologie, e quella idealizzazione del medioevo cui dovrebbe condurre la nausea dell’oggi, sono assai più godibili nella composizione figurativa e nella visionaria interpretazione ambientale, spesso d’alta classe, che sulla tastiera emotiva e tonale delle varie novelle, mosse intorno ai soliti casi salaci e piccanti di mariti cornuti, di vecchi lascivi, di donne vogliose e ragazzi all’assalto, dove anche la morte ha ovviamente la sua parte, ma ciò che domina è la beffa, l’idea che il sesso è sempre allegria, e l’irresistibile provocazione visiva simbolizzata dalle natiche affacciate ai balconi della prima novella, strumento di spietato dileggio e veicolo di infernale castigo. Motivi della stessa qualità farsesca, nutriti di festosa naturalezza ma raramente maturati a valori lirici, si ritrovano un po’ dovunque: sia nella novella della lussuriosa comare di Bath (Laura Betti), sia in quella dei due giovanottini che si vendicano di un ladrissimo mugnaio godendosene la moglie e la figlia, sia nella più lunga ed elaborata, del vecchio castellano (Hugh Griffith) che sposa una ragazzina (Josephine Chaplin), perde la vista, e la riottiene giusto in tempo per scoprirsi tradito. Cui si intrecciano le tragiche: dei tre amici che per impossessarsi d’un tesoro si ammazzano a vicenda, d’un venditore di frittelle che spia i viziosi e assiste alla loro morte sul rogo, del diavolo (Franco Citti) che s’accompagna a un ricattatore. A mezza strada, Pasolini ha ritagliato per Ninetto Davoli, memore del Circo , una sorta di balletto chapliniano molto amabile – forse la cosa migliore di tutta la pellicola – e in chiusura ha inventato sulle pendici dell’Etna un memorabile inferno bruegheliano, ancora una volta percorso dai temi petofoni, quasi leit-motiv d’un film che ad ogni buon conto ha per sigillo un sarcastico amen… (Giovanni Grazzini – Il Corriere della Sera)

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IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE – Italia/Francia 1974 (129′)
Dall’omonima raccolta di novelle arabe, sistemata in forma canonica intorno al 1400: nella storia di Nur-er-Din che cerca Zumurrud, l’amata rapita, e la ritrova sotto le spoglie maschili del re Sair sono contenute, come in una scatola cinese, le altre quattro. Due giovani che attirano fanciulli e fanciulle, li fanno accoppiare per scoprire chi di loro ami di più. Aziz è costretto a subire l’evirazione per aver tradito la donna per cui aveva abbandonato la fidanzata. Tagi riesce a far innamorare di sé una principessa a tal punto da indurla a uccidere il padre. Due principi, dopo vicende sanguinose, si fanno bonzi.

“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni” è la citazione che fa da filo conduttore all’ultima parte della cosiddetta “trilogia della vita”, tutta sotto il segno dell’esaltazione del sesso e della morte incombente. Dei tre film appare come il più sereno e risolto, probabilmente perché la natura stessa della raccolta araba aveva esentato l’autore da ogni obbligo di fare i conti con la storia e il potere, qui sostituiti dalla forza trascinatrice della fatalità e dei sentimenti assoluti.   (Il Morandini)

Il fiore delle Mille e una notte è una sorta di affresco di un mondo, passato e presente – quel Terzo Mondo dal il quale il regista, da qualche anno, si sentiva particolarmente affascinato e attratto – attraversato da un grande senso di serenità e di sensualità mai presente prima, in questo modo, nei film di Pasolini. Egli mette in scena, dunque, il suo sogno, la sua idealizzazione e mitizzazione del Terzo Mondo. In tal modo, il sesso viene liberato dagli aspetti legati al reciproco possesso, alla prevaricazione, al predominio. Vi è pienamente realizzata una libertà sessuale che è anche simbolo di purezza dei sentimenti, che fa sì che il sesso non appaia mai né morboso né osceno, ma rappresenti invece un dono reciproco, innocente e delicato, soprattutto libero da inibizioni e sovrastrutture culturali. Pasolini esprime, con Il fiore delle Mille e una notte, un cinema di “pura poesia delle immagini”, riuscendo a trovare un sereno equilibrio tra alcune componenti essenziali già presenti nei suoi film precedenti, particolarmente in Edipo re e in Medea: il richiamo prepotente alla sessualità e la grandiosa maestosità dei paesaggi, ricchi di valenze pittoriche e di un acuto, sensibilissimo senso artistico. Il regista fa doppiare i suoi personaggi con marcati dialetti del Sud Italia che si adattano alla perfezione ai volti straordinari delle persone del luogo che Pasolini sceglie, come sempre, “dalla strada”. Ancora una volta, Ennio Morricone è il curatore delle musiche nel film. L’Etiopia, la Persia, lo Yemen, l’India, il Nepal forniscono gli incredibili scenari, di antica bellezza, al film e concorrono a descrivere un mondo di sogni e di emozioni che è anche la rappresentazione dolce e fascinosa di ciò che per Pasolini è il Terzo Mondo. Dirà del film il suo stesso autore: “Ogni racconto delle Mille e una notte comincia con una “apparizione” del destino, che si manifesta attraverso un’anomalia. Ora, non c’è un’anomalia che non ne produca un’altra. E così nasce una catena di anomalie. Più tale catena è logica, serrata, essenziale, più il racconto delle Mille e una notte è bello (cioè vitale, esaltante). La catena delle anomalie tende sempre a ritornare alla normalità. La fine di ogni racconto delle Mille e una notte consiste in una “disparizione” del destino, che si insacca nella felice sonnolenza della vita quotidiana. Ciò che mi ha ispirato dunque nel film è vedere il Destino alacremente all’opera, intento a sfasare la realtà: non verso il surrealismo e la magia (di ciò si hanno rare e essenziali tracce nel mio film), ma verso l’irragionevolezza rivelatrice della vita, che solo se esaminata come “sogno” o “visione” appare come significativa. Ho fatto perciò un film realistico, pieno di polvere e di facce povere. Ma ho fatto anche un film visionario, in cui i personaggi sono “rapiti” e costretti a un’ansia conoscitiva involontaria, il cui oggetto sono gli avvenimenti che gli accadono”… (Nico Naldini – Pasolini, una vita)

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IL VANGELO SECONDO MATTEO – Italia 1964 (137′)
Seguendo il “Vangelo di S. Matteo”, il film narra la vita di Gesù Cristo dall’Annunciazione alla Vergine Maria al matrimonio di Lei con Giuseppe, dalla nascita di Gesù alla strage degli innocenti. Divenuto adulto, Gesù, nel deserto, affronta le tentazioni e dopo 40 giorni percorre la Palestina per predicare la Buona Novella, seguito dagli Apostoli. La Sua presenza fra gli uomini è segnata dai miracoli, dal Sermone della Montagna, dal tradimento di Giuda Iscariota, fino al momento in cui, processato da Pilato, viene condannato alla crocefissione. La Resurrezione conclude la vita terrena del Redentore.

La vita del Cristo secondo uno dei tre evangelisti sinottici da cui, però, sono stati espunti tutti i passi escatologici e la maggior parte dei miracoli. È un film laico, rivolto a mettere in luce l’umanità più che la divinità di un Gesù severo, pugnace, medievale, carico di tristezza e di solitudine. Quando il regista riesce a far coincidere il testo di Matteo con l’autobiografia, la passione con l’ideologia, è il film di un poeta. In senso teologico, è un vangelo senza speranza. Con il suo sincretismo formale, i riferimenti pittorici, la scabra luminosità, il richiamo a un Terzo Mondo che non è più solo preistoria, raggiunge una forte tonalità epica e religiosa.  (Il Morandini)

Rispetto ad Accattone, Il Vangelo secondo Matteo segna un processo indubbio, prima di tutto per l’eccezionale impeto espressivo che in questo film rivela direttamente e immediatamente quali sono le cose che stanno a cuore a Pasolini. E in secondo luogo perché, nelle singole parti, Pasolini mostra questa volta di sapere alleare la poesia ad una rifinitezza e levità che in Accattone, più elementare, non si potevano ancora che intravvedere. Pasolini ha un senso acuto della realtà del volto umano, come luogo d’incontro di energie ineffabili che esplodono nell’espressione, cioè in qualche cosa di asimmetrico, di individuale, di impuro, di composito, insomma il contrario del tipico. I primi piani di Pasolini sarebbero sufficienti da soli a mettere Il Vangelo secondo Matteo sopra un livello eccezionale. Ma questi primi piani non basterebbero a darci la storia di Gesù, come una galleria di ritratti non basta a darci l’idea degli avvenimenti ai quali hanno preso parte i personaggi. Il film, dunque, sarà un alternarsi di volti in primo piano e di scene drammatiche per lo più contemplate da lontano, cioè come può vederli uno spettatore il quale ora fissi lo sguardo sulle facce, ora cerchi d’abbracciare la scena intera. (…) Pasolini ha capito il valore plastico e poetico, così del silenzio, come della parola. Diciamo subito che i silenzi sono la forza del film e le parole la debolezza. I silenzi di Pasolini sono affidati all’organo che è più legato al silenzio: gli occhi. Non parliamo qui degli occhi degli spettatori, bensì degli occhi dei personaggi. Le sequenze silenziose del Vangelo secondo Matteo sono le più belle, appunto perché il silenzio è il mezzo più sicuro per farci fare il salto vertiginoso all’indietro che ci propone Pasolini con il suo film. La parola è sempre storica; il silenzio si pone fuori della storia, nell’assolutezza delle immagini: il silenzio dell’Annunciazione, il silenzio che accompagna la morte di Erode, il silenzio degli apostoli che guardano Gesù e di Gesù che guarda gli apostoli, il silenzio di Giuda che sta per tradire, il silenzio di Gesù che sa di essere tradito. Il silenzio nel film di Pasolini non è, d’altra parte, quello del cinema muto, cioè un silenzio per difetto; bensì è il silenzio del parlato, cioè un silenzio plastico, espressivo, poetico. Mentre i silenzi sono di Pasolini, le parole, ovviamente, sono del Vangelo (Alberto Moravia – L’Espresso)

Una intensa, intensissima emozione, e una straordinaria rivelazione: questo fu nell’Italia del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Il più bel film mai girato su Gesù, scrisse poi l’Osservatore romano ricordando sia l’efficacia di quel Cristo e di quella Madonna – impersonati da un sindacalista antifranchista e dalla amatissima madre di Pasolini – sia lo scabro sfondo dei Sassi di Matera. Non c’è dubbio, un grandissimo film sulla religiosità e sull’uomo, sulla povertà e sulla speranza, sul dolore e sull’amore (…) Un Gesù carico di tristezza e di solitudine, in cui Pasolini riversava la sua “nostalgia del mitico, dell’epico, del tragico “, per usare le sue parole. Una nostalgia o una “resistenza” che si contrapponevano a quel che odiava di quel suo tempo: grigiore cinico e brutalità pratica, disponibilità al compromesso e al conformismo. un tempo che non amava, al quale si opponeva in una tensione continua fra nostalgia e profezia e contro il quale evocava, qui e altrove, “la scandalosa forza rivoluzionaria del passato”. Un film quasi senza tempo, Il Vangelo secondo Matteo, come tutti i capolavori, ma di cui solo il suo tempo può farci comprendere l’impatto. Occorre tornare all’Italia del 1964 per capire davvero quell’emozione e quella rivelazione- o meglio, quelle rivelazioni. Occorre tornare a quel che l’Italia era stata sin lì: l’Italia della censura più ottusa e violenta, l’Italia andreottiana che aveva condannato Umberto D di De Sica e l’Italia dei magistrati moralisti e censori (…) Nel 1961 Accattone aveva proposto il mondo dei suoi romanzi sul sottoproletariato romano: dovette attendere per mesi il visto della censura e alla prima proiezione si susseguirono aggressioni e provocazioni di neofascisti. L’anno dopo fu la volta di Mamma Roma: a Venezia lo accolse una gazzarra di estrema destra (…) e solo un anno prima, nel 1963, il suo episodio di Rogopag, La ricotta è sequestrato il giorno stesso della sua uscita per vilipendio alla religione di stato, Pasolini è condannato a quattro mesi di reclusione – sarà poi assolto in appello – (…) Un anno dopo, clamorosamente, l’impatto de Il Vangelo secondo Matteo “rivela” in primo luogo che quell’Italia – e quel mondo cattolico – sono in larga misura in via di scomparsa, espressione del passato: nella mia memoria non sono rimaste tanto le contestazioni della destra politica o del conservatorismo religioso quanto i riconoscimenti che il film ebbe anche nel mondo cattolico (ad esempio il Premio dell’Office Chatholique International du Cinema, che lo proiettò a Nôtre Dame) È rimasto, soprattutto, lo straordinario impatto che esso ebbe nei fermenti che erano stati alimentati dal Concilio Vaticano II e da un grandissimo Pontefice. Del resto l’idea stessa del Vangelo era venuta a Pasolini alla Cittadella d’Assisi, un “luogo” fondativo di quei fermenti, in un convegno su “Il cinema come forza spirituale nel momento presente”. E il film è dedicato con naturalezza “alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIIII”. (Guido Crainz – La Repubblica)


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