Stringimi forte

Mathieu Amalric

Clarisse, donna sposata e con due bambini, una mattina si sveglia con una decisione fissa nella testa: andare via. È così che prepara le valige, si mette in macchina e parte, lasciando la sua famiglia e il suo tetto. Tra ricordi e flashback sul passato durante il viaggio in auto, si delinea la storia di Clarisse, che spiegherà cosa ha portato la donna a questa drastica scelta fino a chiedersi se sia lei che ha abbandonato la sua famiglia o viceversa…

Serre-moi fort
Francia 2021 (97′)


È una fuga quella che racconta Mathieu Amalric in questo suo sesto lungometraggio, che prende ispirazione da un pièce del drammaturgo Claudine Galea, intitolata Je reviens de loin. Una fuga dalla propria famiglia, una fuga dal passato ma, soprattutto, una fuga dal dolore che si snocciolerà pian piano davanti ai nostri occhi. Fra flashback e (possibili) flashforward, prospettive e ricordi, lentamente emerge una storia diversa da quella che sospettavamo inizialmente, all’interno di una pellicola che gioca su un grande colpo di scena che comprendiamo gradualmente e che rimette in gioco tutto quanto. E la parola “gioco” è adeguata anche a rappresentare ciò che Amalric ha fatto con il montaggio, attraverso l’alternanza sopracitata, ma anche attraverso artifici drammaturgici che, quasi miracolosamente, danno al film una grande credibilità. L’idea è forse addirittura superiore alla resa finale, anche a qualche di qualche ridondanza di troppo (l’insistenza sul pianoforte, in primis) non necessaria per lo sviluppo complessivo del copione. Allo stesso tempo, però, Amalric conferma la sua sensibilità e ambizione registica, che vanno di pari passo con la forza delle sue interpretazioni attoriali. Forse non è un caso che riesca sempre a dirigere molto bene gli attori e, in questo caso, tra i valori più significativi dell’intera operazione c’è proprio la potente performance di Vicky Krieps, chiamata a un tour de force attoriale non indifferente. Presentato al Festival di Cannes 2021, Stringimi forte è un film delicato e doloroso allo stesso tempo, incorniciato da un inizio e da una conclusione perfettamente congegnati.

longtake.it

Ci sono film che possono riuscire solo a un attore. Come regista intendiamo. E non perché l’interpretazione vi sia fondamentale, lo è sempre, ma per la fisicità che impregna ogni dettaglio. Una fisicità tanto più decisiva quanto più la storia sconfina nell’allucinazione. O più semplicemente nell’immaginazione. Stringimi forte è uno di questi film azzardati e volatili che riescono a librarsi magicamente in aria anche se a ogni scena dà l’impressione di poter precipitare, come un aquilone. Per gli amanti delle classificazioni è un mélo travestito da road-movie. Strutturalmente invece è un film-puzzle: un mosaico di momenti ripartiti su due fronti e orchestrati a meraviglia da Mathieu Amalric, alla sua ottava regia (compreso un adattamento da Lo Stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice) anche se in Italia lo conosciamo soprattutto come (magnifico) attore di Resnais, Polanski, Wes Anderson, Desplechin. Da un lato dunque c’è il viaggio di Clarissa (la magnetica Vicky Krieps scoperta nel Filo nascosto di P.T. Anderson), che abbandona figli e compagno per vagare tra monti e campagne su una vecchia station wagon che sembra uscita da un quadro iperrealista di Robert Bechtle (citato a metà film). Dall’altro c’è la vita di quella famiglia che continua anche in sua assenza, o almeno così lei immagina, chiedendosi se soffriranno, se gli mancherà, se il marito saprà crescere quel figlio ragazzino e la primogenita così dotata per il piano (magari suggerendogli cosa dir loro con una voce fuori campo, trovata bellissima). Anche se tra un ricordo e una fantasia – il film non distingue mai i piani temporali né immaginazione e realtà – pian piano sorge il dubbio che le cose non stiano proprio così. Forse Clarissa vaga e rimugina per altre ragioni. Forse tutta quell’euforia e quei picchi di dolore hanno un’altra spiegazione. Che Amalric ci lascia intuire abbastanza presto, per fortuna, anziché svelarlo platealmente alla fine. Salvo poi in certo modo costringerci a rientrare nel delirio di Clarissa, facendolo nostro, come se non ci fossero alternative. Rendendo tutto ancora più vero e straziante grazie a una regia ossessionata dal peso e dalla consistenza dei corpi (quante scene costruite sul galleggiare o il librarsi in aria dei personaggi…). Da una pièce di Claudine Galea. Reinventata per lo schermo con grazia stupefacente.

Fabio Ferzetti – L’espresso

Magari è già stato scritto da qualche parte, ma Stringimi forte del francese Mathieu Amalric è assolutamente il film dell’anno. Cinema stilisticamente e narrativamente libero, lacerante, spiazzante, potentissimo. In una casa rurale di un paesino con vista Pirenei una donna, una mamma (Vicky Krieps), si alza la mattina quando è ancora l’alba. Sfiora silenziosamente con un dito la mano del marito Marc (Arieh Worthalter) assopito su letto, osserva la figlia e il figlio che dormono, abbozza una lista di cose da fare e prendere su un foglio del tavolo della cucina e parte con l’auto (rigorosamente tardo anni settanta) verso una meta imprecisata. Da qui in avanti, sesto minuto di film, tutto procede per slittamenti, sovrapposizioni, sfocature, ipotesi, che poi si traducono in frammenti possibili e probabili del viaggio materno dove la lingua francese si mescola a quella spagnola, in tenere sequenze casalinghe di padre e figli che abbozzano fragili normalità, alla ricerca di un abbraccio familiare che sembra perduto. Un turbine magmatico binario (parallelo?) che si sfiora, si compenetra in overlapping tra fotogrammi, assonanze, ricordi, polaroid, con il pianoforte suonato dalla figlia che funge da ponte sonoro a congiungere due piani spaziali, temporali (immaginari/immaginati?). Perché riempiamo di punti interrogativi la recensione? Perché Stringimi forte è un film che per una buona ora e venti non dà risposte risolutive, ma che anzi, proprio per via di questa sua sgusciante non verificabilità della verità in scena, per via di questa ricerca singolare di angolazioni, prospettive, vicinanza della macchina da presa ai personaggi inquadrati, meglio osservati, non vuole concedere appigli espressivi e certezze del racconto (dice Clarisse, la madre in fuga: “non sono stata io ad andarmene via”), ma lasciarti appeso al fluire visivo e sonoro inesausto.

La sinfonia della perfezione si compie su più piani. A partire dalla regia, vera e propria messa in scena totalizzante alla Cahiers con Amalric (attore stratosferico sempre, regista di opere ancor più importanti) che si concentra su ogni singolo aspetto tecnico (focus sul suono: note musicali, fruscii, sussurri, grida, voci che danno il brivido acustico della poesia) e artistico (la direzione degli attori, per dirne una, ha del miracoloso) accennando dialoghi invisibili e scrostando improvvisamente il dolore individuale dei protagonisti senza permettere allo spettatore di opporre resistenza. Note a margine, ma mica tanto: le performance pianistiche della figlia di Clarisse e Marc (Schonberg, Rameau, Rachmaninov e soprattutto Martha Argerich) trascinano ben oltre il mero commento musicale penetrando nel testo, nella storia, nella pelle dei personaggi. La “voiture” della fuga è una AMC Pacer Break del 1979. Il cane dei ricercatori di montagna si chiama Easton. No, non siamo impazziti. In Stringimi forte tutto ciò che vedete, ascoltate, immaginate, ogni dettaglio e apparizione ha pari dignità e qualità in scena.

Davide Turrini – ilfattoquotidiano.it

 

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