La chiamata dal cielo

Kim Ki-duk

Una ragazza incontra uno scrittore e tra loro nasce un’attrazione reciproca. Lui nasconde un passato di relazioni burrascose, che lei gli chiede di interrompere ad ogni costo. La loro relazione si svilupperà tra passione, sesso, sofferenza e gelosia in un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà.

Call of God / Kõne Taevast
Estonia/Kirghizistan/Lettonia 2022 (81′)

  Opera postuma di Kim Ki-duk, girata nell’estate 2019 in Kirghizistan e portata a termine dalla produzione dopo l’inaspettata scomparsa del regista avvenuta in Lettonia nel dicembre 2020, Call of God si apre con questa frase, attribuita all’autore: «Closer to death, the more humans miss and reminisce about their youth…but life never comes back». In poche parole troviamo racchiuse vita e poetica di un personaggio che è stato molto amato ed apprezzato in giro per il mondo più che in patria, ma che ha attraversato anche periodi difficili e solitari e che, profeticamente, sente e teme l’avvicinarsi della morte. Ritroviamo le tematiche ricorrenti dell’intera opera del regista sudcoreano, anche se a differenza di alcune vette del suo cinema, come L’isola (2000), Bad Guy (2002), La samaritana (2004) o Ferro 3 (2004), dove violenza e passione si combinavano aspramente ed in modo ostentato, qui pulsioni ed ossessioni sono molto più sfumate e siamo più vicini alle atmosfere del cinema francese degli anni Sessanta o, ancor di più, a quello di Hong Sang-soo, il suo connazionale più prossimo al cinema d’autore europeo: un essenziale bianco e nero ci conduce in una semplice storia d’amore, ricca di simbolismi e ripetizioni, dove ai due protagonisti sono assegnati ruoli emotivamente molto impegnativi. Pur con le forti limitazioni di un lavoro non completato dal suo autore che notoriamente svolgeva tutta la postproduzione in prima persona, il film rappresenta un generoso atto di amore e un importante omaggio alla sua carriera, ricco di spunti interpretativi.

longtake.it

Il mondo crudele ed estremo firmato dal sudcoreano Kim Ki-duk torna, postumo, a Venezia, Fuori Concorso. S’intitola Call of God ed è il 24esimo ed ultimo film diretto dal regista coreano, morto per Covid mentre si trovava in Lettonia nel dicembre del 2020, dopo essere stato emarginato in patria per via di una serie di accuse di molestie e violenza sessuale. A quanto afferma la produzione del film, Kim aveva girato tutte le scene sul set di una grande città del Kyrgizstan e dopo la sua morte, e su indicazioni di montaggio e postproduzione indicate su taccuini e appunti di lavoro, è stato il regista estone Arthur Weber a completare definitivamente Call of God. Protagonista del film è una ragazza (Zhanel Sergazina) “nella cui mente si affaccia un amore” e sul suo smartphone chiama nientemeno che… Dio. Incontrato per strada un ragazzo (Abylai Maratov) che le chiede dove si trova un locale, la ragazza lo accompagna fino alla meta. Poco prima che i due infine si siedano accettando di chiacchierare durante una bevuta, la ragazza viene scippata e lui si getta a recuperare la borsa ricevendo comunque un pugno in pieno viso dal ladro in fuga. Inizia così una tormentata, sincopata, sadica e cruda storia d’amore e di sesso che rivela un presente (e un passato) da donnaiolo impenitente e violento del ragazzo, come un desiderio masochistico della protagonista. Dopo una sorta di tran tran convenzionale in crescendo per circa 45 minuti di film, la situazione precipiterà con i due che verranno alle mani: lei getterà il cane del ragazzo dal terrazzo, lui la prenderà a mazzate (da golf) in testa. C’è tutto il tormento, e l’estasi, del cinema di Kim, in questa opera minima in bianco e nero che sembra come un saggio scolastico basico sui parametri dell’inquadratura e il senso del ritmo del racconto. Laddove l’amore si coniuga nuovamente con la morte, dove l’anima sfiora e subisce materialmente il senso della colpa, dove il corpo si mette sadomasochisticamente in gioco nella sua integrità fisica (la sequenza delle freccette lanciate verso i palloncini trattenuti tra le cosce di lei e lui è un’allegoria da galleria Kim), Call of god rivela le ultime peculiari crude e dolorose tracce di un cinema che da L’isola a Ferro 3, passando da Pietà e Moebius, ha fatto scuola e storia con un occhio carnale all’eccesso e un tuffo luminoso nell’anima.

Davide Turrini – ilfattoquotidiano.it

Call of God è l’ultimo lavoro postumo del grande maestro coreano Kim Ki-duk, girato poco prima di ammalarsi di Covid nel 2020 e, dopo la sua morte, affidato al montaggio di colleghi che hanno cercato di seguire le sue indicazioni. Come si evince dal titolo, è un film metafisico, in cui la chiamata di Dio è, effettivamente, una telefonata che una donna riceve da una voce misteriosa che le impone di fare delle scelte. Ma tutto ciò è innestato in una storia minima e apparentemente quotidiana. Il film si apre infatti con due ragazzi che fanno conoscenza casualmente e che iniziano una relazione che sembra perfetta. Presto si scopre però che lui è un donnaiolo e che lei è una gelosa paranoica. Questo li conduce in un vortice di autodistruzione che li porta all’isolamento dal mondo circostante attraverso violenze fisiche e psicologiche. È quello che vogliono? La domanda apparentemente banale si vena di motivi assoluti, com’è tipico della cinematografia del regista, e presto Call of God si trasforma in un conflitto tra destino e libero arbitrio, un destino rappresentato dalla voce di Dio, ma anche da ciò che resta scritto nella nostra psiche fin dai primi anni di vita. La trama semplice si ampia ben presto a una struttura complessa, giocata su più livelli – è realtà? È un sogno? È lo svolgimento di un romanzo? -, molto difficile da gestire.

Il film procede a tratti faticosamente proprio per questo e avrebbe richiesto di certo un complesso lavoro di montaggio delle scene che caratterizzano la trama primaria e delle aperture verso livelli altri. Forse manca la ruvida poesia, il conflitto tra sublime e violenza che Kim Ki-duk ci aveva fatto conoscere in molte altre occasioni, mancano gli affondi, quella dilatazione dei tempi narrativi che è penetrazione nelle viscere dei personaggi. Resta un bianco e nero cupo come una nuvola che avvolge tutto e che si apre solo molto dopo ai colori brillanti e puliti, a suggerire una svolta, un riconoscimento di noi stessi che arriva come l’approdo di un viaggio tempestoso. È anche un film sulla solitudine e, in fondo, sull’essenza stessa dell’animo umano.

Alessandro Cinquegrani – saledellacomunita.it

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