L’ultima luna di settembre

Amarsaikhan Baljinnyam

Tulgaa è da tempo andato a vivere in città lasciando il villaggio nella campagna della Mongolia. Una telefonata lo avverte che il patrigno sta per morire e lui lo raggiunge. Dopo il decesso mantiene la promessa fattagli di portare a termine il lavoro di fienagione. Nei campi lo raggiungerà Tuntuulei, un ragazzino decenne che vive con i nonni. I due, poco a poco, impareranno a conoscersi. Una storia sull’infanzia e la genitorialità, basata su rapporti umani che crescono sillabati dai gesti, dai silenzi, dalla semplice vicinanza. Il tutto ambientato tra gli incantevoli paesaggi della Mongolia: un’occasione rara per scoprire una terra ricca di umanità e tradizioni.

Harvest Moon 
Mongolia 2022 (91′)

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  Solo la scena iniziale vale il biglietto: un ragazzino in piedi precariamente sul dorso di un cavallo che con un telefonino, messo su in cima a un lungo bastone, è alla ricerca di un improbabile campo per telefonare. E questo nel nulla della steppa mongola. È il meraviglioso incipit de L’ultima luna di settembre, diretto dal regista e attore Amarsaikhan Baljinnyam, già nella serie Marco Polo di Netflix. Il film, ci porta appunto nella Mongolia contemporanea, ma potremmo essere in quella medioevale, ed esattamente nella remota provincia del Hėntij, dove la densità di popolazione è di 0,95 abitanti per chilometro. Quando l’anziano padre si ammala gravemente, Tulgaa (Baljinnyam), che da anni vive in città e ha trovato lì la sua strada, torna al villaggio natale sulle remote colline della Mongolia per assisterlo. Poco dopo il suo arrivo l’anziano verrà a mancare, ma Tulgaa, come preso dai ricordi del passato, decide di restare a vivere nella iurta del padre per portare a termine il raccolto che l’uomo aveva promesso di completare prima dell’ultima Luna piena di settembre. Mentre sta lavorando nei campi per raccogliere il fieno, Tulgaa incontra un bambino di dieci anni, Tuntuulei, che vive con i nonni a cui è stato affidato da una madre distratta. Un ragazzino sveglio che inizialmente lo sfida, lo provoca, quasi alla ricerca delle sue attenzioni. Lentamente però nascerà tra i due un profondo legame di affetto, proprio come tra padre e figlio, e così Tulgaa, appena divenuto orfano di padre, scopre dentro di sé quella paternità che non aveva ancora conosciuto. Ma appunto come ricorda il titolo l’ultima Luna piena di settembre sta per arrivare, e a Tulgaa restano pochi giorni da passare insieme a Tuntuulei prima di fare ritorno in città. Adattamento dal romanzo breve Tuntuulei di T. Bum-Erden, il film presentato dalla Mongolia nella corsa agli Oscar, solleva il velo su una triste realtà di questo Paese. Ovvero quella, molto comune, che vede i bambini della campagna abbandonati dai loro genitori quando vanno a lavorare in città. Bambini, ma anche ragazzi, in genere scarsamente istruiti e cresciuti nel modo più spartano e tradizionale dai loro nonni. Ora anche il giovanissimo Tuntuulei vuole trasferirsi lì, a Ulaanbaatar, proprio dove lo stesso Tulgaa si è rifugiato quando ha lasciato la sua casa nella steppa. Ovvero in quella capitale della Mongolia, a cui il regista dedica solo poche sequenze, ma che resta il luogo di tutte le fantasie, il luogo dove si realizzano i sogni.

ansa.it

  Ma davvero è possibile appassionarsi ad un film girato in Mongolia, in mezzo a pianure interminabili, e senza neanche una battaglia, uno scontro epico, senza neppure Gengis Khan, ma solo alcuni personaggi di poche parole, quasi tutti con la faccia di Jack Palance cotta dal sole, e tanta tanta erba, cavalli, pecore, tende, silenzi? Sì , è possibile. Anzi: ne L’ultima luna di settembre ti sembra di ritrovare il respiro dei grandi western, ti sembra di vedere l’unico western possibile al giorno d’oggi. E ti sembra di cogliere, di nuovo, i sentimenti del Monello di Chaplin, esattamente cento anni dopo… Qualcosa di forte, raccontato con attenzione, con delicatezza. Ma anche con quella forza assoluta, quella innocenza che il cinema occidentale ha perduto da tempo. Già la prima inquadratura è memorabile (…) L’ultima luna di settembre è la storia di un ritorno:, un ritorno alle radici: un po’ come il ritorno di John Wayne in Un uomo tranquillo. Ma per il protagonista che torna a casa, nel suo villaggio natale, non ci sono ragazze irlandesi dal carattere forte. C’è un ragazzino, faccia da scugnizzo orientale, pochi anni e tanta grinta. Un ragazzino che si atteggia a duro, ma a malapena riesce a montare su un cavallo. Un ragazzino che ha imparato a fare la lotta, ma non a leggere e a scrivere. Ci vuole tutto il tempo necessario, affinché fra l’uomo robusto, taciturno, dalle spalle larghe e il ragazzino vivace, orgoglioso, impertinente si sviluppi un rapporto di confidenza, di lealtà, di affetto. Sono due orfani, l’uomo e il ragazzino di dieci anni. Tutti e due hanno imparato a cavarsela: ma solo uno dei due sa inghiottire grandi sorsate di solitudine senza un lamento, senza una parola (…) È una storia d’affetto, una storia di rapporti umani che crescono, e che non vengono raccontati o definiti dalle parole, ma vengono sillabati dai gesti, dai silenzi, dalla semplice vicinanza. È la storia di due persone sole, in una Mongolia rurale che assomiglia a una riserva di nativi americani: anziani pieni di rughe, e adulti preda dell’alcool. Mentre il nuovo avanza, nella forma di un macchinario agricolo. Mentre si alternano campi lunghissimi, orizzonti che tagliano il due il fotogramma, e primi piani attenti ma non invadenti – difficile spiegarlo: viene quasi da parlare di “rispetto” verso gli attori – non c’è niente che ci prenda per mano. Neanche la musica fuori campo: solo il suono di un’armonica, suonata dal protagonista, Tulgaa, e comprata a caro prezzo dall’uomo che gli ha fatto da padre: “L’ho scambiata con due pecore”. È un film scarno, eppure complesso, per tutto quello che ci fa percepire, nell’universo del non detto. Un film che rasenta il documentario, mentre racconta un mondo rurale che sembra scolpito nei secoli, ma probabilmente è prossimo alla fine. Ma anche un film capace di scavare nell’anima dei suoi personaggi, di quelle due vite sull’orlo di diventare un nucleo familiare. Ci dice, se mai un film lo ha detto, che cosa sia voler bene, che cosa sia aggrapparsi a qualcuno, per non sentirsi soli nell’universo. Che poi l’universo abbia le sembianze di una pianura infinita che si chiama taiga, è solo un caso.

Giovanni Bogani – mymovies.it

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