Parigi: la diciottenne Marion, a cinque anni di distanza dalla morte di sua sorella, è piena di dolore ed esce di casa vagando per le strade della città. Quando si imbatte in Alex è l’incontro di due solitudini e il loro percorso si trasformerà nel ritmo che scandisce il vagare nella città, come un viaggio nella notte.
Francia/Belgio 2021 (87′)
Nella sezione Orizzonti di Venezia78 è approdata Ma nuit, l’opera prima della regista francese Antoinette Boulat, che ha alle spalle un’ampia esperienza come casting director ma si cimenta qua per la prima volta dietro la macchina da presa. Il risultato è un dramma psicologico e sentimentale di stampo intimista, sempre in bilico fra disperazione e speranza, magari un po’ acerbo sotto certi aspetti ma comunque riuscito e personale, un film di forte impatto emotivo che trasmette le sensazioni con un tocco e una sensibilità marcatamente francesi. La regista è fra gli autori dello script, che ambienta la vicenda quasi interamente durante una notte, in una città anonima d’Oltralpe – forse Parigi – e ha come protagonista la diciottenne Marion (Lou Lampros). La ragazza è rimasta segnata dalla morte della sorella Alice, avvenuta alcuni anni prima: dopo un litigio con la madre, Marion esce di casa, vede alcuni amici, e inizia poi un viaggio solitario e notturno lungo le strade della città. Incontra casualmente il giovane Alex (Tom Mercier), che la soccorre dalle insidie di due molestatori, e fra i due ragazzi scatta subito un forte sentimento di empatia e amicizia, per cui vagano insieme senza meta: la notte si rivela per entrambi, e soprattutto per Marion, un’occasione per riflettere sulla vita. Ma nuit è innanzitutto un coming of age delicato e intimista, che scava nei sentimenti e nella psicologia dei personaggi, guardando l’intera vicenda dalla prospettiva di Marion: cioè di colei che è la protagonista assoluta del film, il personaggio intorno a cui ruota tutto, seguita costantemente dalla macchina da presa che focalizza su di lei la maggior parte delle inquadrature. Perché la maturazione, la (ri)scoperta della vita – il coming of age, appunto – concerne Marion: mentre Alex, nonostante abbia pochi anni più di lei, le fa da guida, da amico e da fratello maggiore, e non è un caso che fra i due non sia destinato a sbocciare mai l’amore, bensì solo un sincero sentimento di amicizia che sfocia in un tenero e sentito abbraccio. Se vogliamo, Ma nuit è quasi una rivisitazione in nero de Il tempo delle mele, dove l’edulcorazione del film di Claude Pinoteau è sostituita da una gioventù inquieta che si pone domande sulla sua fragile condizione esistenziale. La protagonista vive infatti una situazione emotivamente difficile: l’impossibilità di elaborare il lutto riguardo la morte della sorella e il continuo confronto con i fantasmi del passato. Una condizione accentuata dal comportamento della madre, che fa un po’ come Bette Davis nello psicodramma L’anniversario, cioè continua a riunire annualmente familiari e amici di Alice per continuare a celebrare il compleanno della defunta. La casa dove Marion vive con sua madre è una casa di spettri, dove aleggiano continuamente la morte, la disperazione, il ricordo del passato. Per questo motivo, il viaggio notturno di Marion diventa un viaggio iniziatico alla scoperta di sé stessa, e verso la presa di coscienza che un’altra vita è possibile. La ragazza, per usare le sue parole, deve riuscire ad “attraversare la notte”: un’espressione da riferire ovviamente non tanto alla peregrinazione notturna ma al viaggio dentro le ombre della vita (di cui il vagare senza meta assurge a metafora), e alla successiva riemersione alla luce del giorno, quando il percorso interiore è stato compiuto. Il cuore della vicenda, come suggerisce il titolo programmatico, è la notte, per cui Ma nuit ha una struttura che riecheggia vagamente Fuori orario di Martin Scorsese – un’unità di tempo dove accade un po’ di tutto e si incontrano i personaggi più disparati – ma ripulito da ogni divertissement e da ogni elemento noir.
Marion – una semi-sconosciuta ma bravissima Lou Lampros, che recita con un’espressione quasi catatonica – incontra vari personaggi del mondo underground, fra i partecipanti a un rave party e balordi da strada (“vampiri”, vengono definiti), eppure nel film della Boulat non succede niente di particolare, non ci sono colpi di scena o sequenze-madri, e la narrazione (che va di pari passo con lo stile) è minimalista, si muove quasi per sottrazione. Si parlava di un quid, di una sensibilità squisitamente francese: viene in mente per certi versi il primo Leos Carax (quello asciutto di Boy Meets Girl, e non quello furoreggiante de Gli amanti del Pont-Neuf); un modo di dirigere e narrare fatto di dialoghi che si alternano a lunghi silenzi e a delicate musiche extra-diegetiche, una fotografia neutra e asettica, un unicum registico quasi sperimentale. Ci sono sì alcune scene visivamente più marcate – Marion e Alex che si tuffano nel fiume, oppure la Lampros che ascolta con le cuffie i suoni della natura per poi stramazzare a terra, sfinita dall’erba che aveva fumato – eppure in Ma nuit sono i dialoghi a predominare: discorsi filosofici ed esistenzialisti sulla vita, discorsi improntati al nichilismo e a un certo spleen baudelairiano, discorsi che talvolta risultano ridondanti (per questo si parlava di un’opera per certi versi un po’ acerba, oltre che per una lentezza talora eccessiva). Eppure, Antoinette Boulat fa centro, riuscendo ad elevare la storia di Marion e Alex quale metafora di una generazione di giovani inquieti che fanno fatica a trovare il loro equilibrio nel mondo.
Davide Comotti – cinefiliaritrovata.it
“Le persone che hanno perso qualcuno di recente hanno un certo sguardo, riconoscibile forse solo da chi ha visto quello sguardo sul proprio volto. L’ho notato sul mio viso e lo noto ora sugli altri. Lo sguardo è di estrema vulnerabilità, nudità, apertura”. Aprendo il suo primo lungometraggio da regista, Ma nuit, con questa citazione da L’anno del pensiero magico della scrittrice americana Joan Didion, la nota direttrice del casting francese Antoinette Boulat “dà il la” a un film d’atmosfera molto strano, svelato nel programma Orizzonti della 78ma Mostra di Venezia. Perché è questo particolarissimo stato di fluttuazione causato dal lutto, questa sensazione di vuoto intenso in cui risuonano emozioni profondamente represse e che sconvolge tutte le percezioni del mondo circostante e tutti i rapporti umani, che funge da filo conduttore al vagare di una giovanissima donna (la rivelazione Lou Lampros) in una Parigi notturna al confine tra il sogno e l’incubo. Un vagabondare carico di cattivi presentimenti che riecheggia la grande paura del futuro di una giovane generazione oziosa, disorientata e febbrile (“l’eternità? Con cosa riempirla?”), tentata dallo stordimento e dalla fuga, “al contempo felice e triste per quasi gli stessi motivi”. Ma, come un angelo custode che emerge dalle tenebre del deserto urbano, si apre un varco, un incontro, uno scambio, una breccia verso la libertà e un altro mondo possibile, forse l’amore… Da cinque anni, ossia dalla morte della sorella maggiore che ha provocato la dipartita di suo padre e ha portato sua madre “a dare di matto”, Marion affronta tutto questo. Ma a 18 anni è un fardello invisibile molto pesante da portare (“la gente dice che sarà tutto meraviglioso, ma si riduce tutto a una telefonata… non so nemmeno cosa ci sia da sognare”). Solitaria tra le sue amiche con cui gira per le strade di Parigi e si scatena a una festa, si ritira alle ore più profonde della notte per tornare a casa. Nelle strade deserte della capitale incontra poi Alex (l’israeliano Tom Mercier, il protagonista di Synonymes). Inizia uno strano passo a due, fatto di conversazioni e dubbi, mentre calpestano l’asfalto e respirano l’aria unica e a volte pericolosa della Parigi notturna. Girato in un formato 1.37:1 che accentua l’isolamento dei personaggi, Ma nuit è un film molto atipico, che mira a catturare e a restituire un territorio psicologico e geografico commovente e paradossale. Un disegno che trova la sua vera forma nella sua seconda parte (attorno al suo accattivante duo di interpreti principali) dopo una fase espositiva sicuramente varia ma anche molto disomogenea nella sua rappresentazione più “banale” della giovinezza di oggi. Occorre quindi una certa pazienza per passare dall’altra parte dello specchio e lasciarsi sedurre dal linguaggio cinematografico singolare della regista.
Fabien Lemercier – cineuropa.org