Nagisa

Takeshi Kogahara

Giappone 2021 (87′)

 TORINO – Nagisa è l’opera prima del giovane regista giapponese Takeshi Kogahara, presentata in concorso e vincitrice della menzione speciale della giuria al 40esimo Torino Film Festival. Menzione più che meritata per un film che si avventura nella ricerca di un utilizzo innovativo dei mezzi espressivi di cui il cinema si avvale, in particolare il “fuori campo” e opta per una narrazione in cui la fabula frammentata in un passaggio continuo tra presente, passato e futuro, tra realtà, memoria e sogno, costituisce una sfida per lo spettatore nella ricomposizione degli indizi per la sua comprensione finale.

  Il film racconta la storia di due fratelli Fuminao e Nagisa che vivono a Nagasaki, in stretta simbiosi perchè orfani di madre. Dopo il trasferimento a Tokyo il ragazzo cerca di allontanarsi da Nagisa, che decide allora di raggiungerlo, ma durante il viaggio in autobus perde la vita in un incidente dentro un tunnel. Tre anni dopo Fuminao è condotto dagli amici a fare una gita alla stessa galleria dove si dice che appaia il fantasma di una ragazza… La prima scena è girata all’interno di un autobus, dove non si vedono persone, ma solo gli schienali dei sedili e le luci, si sente una voce che ricorda il tragitto verso Tokyo e raccomanda di stare seduti con le cinture allacciate perché ci possono essere frenate improvvise. Il primo personaggio è evocato per assenza.
Si prosegue con un totale di un ragazzo in una stanza, poi a lezione, l’incontro con una ragazza ripresa di spalle di cui non sentiamo il dialogo, infine lui dietro i fornelli di un ristorante dove lavora. E così via, in una sequela di scene in cui la narrazione è a livello zero, ma ciascuna contiene una miriade di indizi visivi che lo spettatore deve individuare, raccogliere e assemblare.

Ma l’aspetto sperimentale del film va individuato non soltanto nella struttura asincronica e frattale, a cui peraltro molte serie televisive hanno abituato lo spettatore, quanto nell’uso che Kogahara fa del “fuoricampo”. In quasi tutto il film infatti ciò che avviene al di fuori dell’inquadratura è più significante di quanto è racchiuso all’interno dei bordi del quadro, il soggetto dell’azione o della comprensione della storia non è mai inquadrato se non per rimandare a ciò che sta al di fuori. L’elemento che permette di legare ciò che è inquadrato (spesso dettagli del viso, particolari di oggetti come telefoni, scarpe, cibo) con ciò che lo spettatore deve vedere con l’immaginazione è il sonoro, che sostituisce l’immagine. Nagisa è un film in cui il suono è onnicomprensivo, la vera colonna sonora, visto che non c’è quasi musica. Ad esempio nella sequenza chiave, in cui Fuminao si reca nel tunnel dove tre anni prima è morta la sorella, l’inquadratura mostra soltanto il buio all’interno del tunnel dove le uniche luci sono i puntini arancioni delle lampade a muro, ma il sonoro con lo scalpiccio della corsa di Fuminao e il suo respiro affannoso ci fa intuire la reazione del ragazzo. Al di là della originalità della messa in scena, che può anche indispettire lo spettatore pigro, il giovane regista giapponese, ripercorrendo le tematiche e le atmosfere di uno dei suoi maestri Kiyoshi Kurosawa, realizza un film sul distacco e sul dolore della solitudine, sul disagio quotidiano e l’assenza di comunicazione nel Giappone contemporaneo, scegliendo di concentrare l’attenzione non tanto sui personaggi e le loro vicende, quanto sul loro flusso emotivo, che non può essere trasmesso attraverso la forza delle immagini, ma soltanto evocato.

Cristina Menegolli – MCmagazine 78

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