Peter von Kant è un celebre regista cinematografico, che vive in compagnia del suo assistente Karl, un uomo che il cineasta tratta male fino all’umiliazione. Tramite l’attrice Sidonie, Peter conosce un ragazzo attraente di nome Amir, di cui si innamora sin da subito, tanto da decidere di ospitarlo nella sua casa e provare a fare di lui un attore.
Francia/Belgio (85’)
Basta un’immagine per capire l’intero senso di quest’operazione: François Ozon, in una delle sfide più ambiziose della sua carriera, apre questa pellicola con un’immagine degli occhi di Fassbinder, messi in primissimo piano per dichiarare fin da subito come questo sia un film di un vero e proprio fan del regista tedesco. È un omaggio a tutti gli effetti Peter von Kant, che rielabora al maschile la pièce dello stesso Fassbinder, Le lacrime amare di Petra von Kant, da cui il grande autore ha tratto nel 1972 quello che rimane forse il suo massimo capolavoro. Un film sul potere psicologico, sulla sottomissione e sull’arte cinematografica, capace di trattare con grande spessore i rapporti umani, esattamente come la pellicola da cui prende spunto. Ozon mette in scena Fassbinder rileggendo il suo testo, ma rimanendone fedele allo spirito e optando per un protagonista che, a partire dai vestiti, rimanda direttamente al regista tedesco. Ozon sa di non poter competere con l’estetica irraggiungibile dell’originale (la fotografia di Michael Ballhaus mette ancora oggi la pelle d’oca), ma gioca esplicitamente di riflessi, sfiorando la maniera e con qualche calcolo di troppo, ma riuscendo ugualmente a rendere intensa più che mai la materia narrativa originaria. La confezione è curata, il coinvolgimento altissimo e tanto basta, nonostante più di un passaggio studiato a tavolino. Notevole la conclusione di un film che cresce alla distanza. Ottima prova di Denis Ménochet, ma una menzione speciale la merita Hanna Schygulla (tra le protagoniste del film originale) nei panni della madre del personaggio principale: è lei uno dei tanti collanti tra questo lungometraggio e quel film immortale firmato Fassbinder.
longtake.it
Gennaio 1972: R.W. Fassbinder gira in 10 giorni Le lacrime amare di Petra von Kant, tutto in un appartamento, per 325.000 marchi. Febbraio 2022: Ozon porta alla Berlinale un remake di quel film al maschile. Petra diventa Peter. L’affermata stilista sempre chiusa in casa ora è un regista talentuoso e tormentato, evidente alter ego di Ozon (come già Petra di Fassbinder). L’oggetto d’amore impossibile non è più una giovanissima Hanna Schygulla bensì l’indocile Khalil Garbia, una specie di Ninetto Davoli nordafricano che presto si ribella all’amore-possesso del suo pigmalione smascherandone egoismo e crudeltà. Anche la segretaria factotum che sopporta in silenzio la tirannia di Petra/Peter cambia sesso: al posto di Irm Herrmann c’è l’efebico Stefan Crepon. Mentre l’appartamento-teatro-laboratorio-prigione di Peter, tutto tinte forti e kitsch anni 70 (più vari San Sebastiano), resta coprotagonista. Analogie e differenze potrebbero continuare, ma il punto di contrasto è un altro: l’autore. Fassbinder aveva 26 anni e già 11 film al suo attivo. Ozon, eclettico, prolifico e da sempre ossessionato dal grande tedesco (Gocce d’acqua su pietre roventi, 2002, suo terzo film e tra i suoi migliori, era tratto da una pièce inedita di Fassbinder), non è un autore maledetto ma un riverito (e ironico) cineasta francese che affronta il remake come farebbe un regista di teatro con un classico. Portandolo a sé. E al sentimento del presente, anche se epoca e ambientazione teutonica sono quelle originarie. Così, se la Petra di Margit Carstensen era gelida, Peter (monumentale Denis Ménochet) è un vulcano. Il lavoro di Petra era solo una cornice. Il cinema di Peter diventa un doppio della vita e dei meccanismi di potere all’opera ovunque. Fassbinder scopriva per così dire in diretta (di qui maschere e filtri) che «l’amore è più freddo della morte». Ozon lo sa già. Ma sa pure che ognuno di noi si ostina a far finta di niente. Dunque preme sul pedale della rappresentazione. Prende la diva Isabelle Adjani, con tutto il suo peso, per il ruolo dell’amica attrice, mentre la Schygulla fa la madre di Peter. E dà al dolore, all’angoscia, alla furia colpevole e (auto)distruttiva di Peter, variata mille volte dallo stesso Fassbinder fino al memorabile Germania in autunno, la violenza esibita di un rito. Un rito che esprime la purezza disperata di un sentimento e insieme la nostalgia per quel sentimento. Si può trovare il tutto artificioso. Ma ci si può anche abbandonare all’impeto travolgente di questo gioco di specchi che mezzo secolo dopo non ha perso un grammo di forza e di verità. Fassbinder è morto nel 1982. Ma è più vivo di tanti contemporanei.
Fabio Ferzetti – espresso.repubblica.it
Rilettura al maschile di Le lacrime amare di Petra von Kant di Fassbinder. Nel film del 1972 Petra era una stilista che si innamorava di una giovane ambiziosa, qui Peter è un regista che si fa stregare da un giovane di cui si intuisce subito l’ambizione. Stessa ambientazione anni Settanta in un unico grande interno (all’origine c’è una pièce poi diventata film), medesima inquietante presenza di un segretario-servitore e stesso percorso che trasforma il legame tra due persone in un crudele braccio di ferro, al cui atto finale assisterà anche la madre (Hanna Schygulla, che nel film del ’72 era la giovane ambiziosa). Ma soprattutto c’è la medesima riflessione sul gioco di potere che si impadronisce delle persone attraverso i sentimenti e che finisce inevitabilmente per concludersi con un vincitore e una vittima. Era un tema che Ozon aveva già affrontato nella sua precedente riduzione da Fassbinder, Gocce d’acqua su pietre roventi, ma che qui prende la forza di un vero teorema, inesorabile e glaciale, sulle sofferenze dell’amore (non sono un caso le immagini di San Sebastiano che disseminano la casa) e che solo alla fine sembra stemperarsi in un po’ di commozione per chi è sconfitto..
Paolo Mereghetti – iodonna.it