Irlanda, contea di Waterford, primi anni ’80. Cáit, 10 anni, è bambina silenziosa e propensa a isolarsi che vive in una casa senza amore dove viene percepita come un peso. Così viene affidata dalla famiglia ad una coppia di amici per trascorrere l’estate lavorando in una fattoria. Nonostante un’iniziale diffidenza i coniugi Seán e Eibhlín si rivelano persone sensibili e disponibili, pur se portatori di una dolorosa verità.
An Cailín Ciúin
Irlanda 2022 (97′)
Sin dal titolo in gaelico, The Quiet Girl è un’opera che parla dell’Irlanda ambientando gli avvenimenti negli anni Ottanta per raccontare le difficoltà che una parte del Paese ha dovuto e deve affrontare. Al centro di questa parabola il personaggio di Cáit si staglia in controluce: le caratteristiche che la contraddistinguono sono proprie di chi deve o vuole scomparire. L’incipit del film restituisce infatti per intero la caratterizzazione della protagonista mostrandoci Cáit e i fratelli giocare a nascondino senza però riuscire a trovarla. In questo gioco di silenzi, le poche parole che sentiamo hanno una risonanza profonda e tanto le voci dei compagni di classe, quanto quelle dei componenti della numerosa famiglia risuonano fragorosamente nella testa della protagonista e nelle orecchie succubi dello spettatore.
Seán e Eibhlín rappresentano inizialmente un cambiamento difficile da valutare andando a sostituire una figura materna ad un’altra e soprattutto rimarcando l’assenza di quella paterna. Il tema della sostituzione è centrale soprattutto dopo la sedimentazione del nuovo nido familiare, messo alla prova da un lutto che ne rievoca un altro. In questa tela di rimandi, ricordi e risonanze, il lavoro di Colm Bairéad è apprezzabile per la grande sensibilità e precisione nel gestire immagini e suoni che trasmettono allo spettatore il sentire ineffabile di Cáit. Il finale si rivela così di una forza narrativa disarmante con un climax di eventi di fronte al quale è difficile rimanere indifferenti.
longtake.it
Più che duro racconto di formazione, The Quiet Girl è un racconto di involontaria e sognante fuga. Un po’ come nella sequenza in cui la decenne protagonista Cait (Catherine Clinch), prima di addormentarsi, legge qualche pagina di Heidi, il romanzo poi cartone animato in cui una bimba orfana viene accudita e cresciuta dal nonno tra pascoli alpini e caprette. Anche nell’opera prima diretta dall’irlandese Colm Bairéad, la piccola protagonista viene separata dal contesto ostile familiare in cui è nata e, anche se è solo per un’estate, trova affetto e vicinanza da una coppia di parenti che vivono tra mucche, orti e stagni. Siamo nei primi anni ottanta, in una zona rurale dell’Irlanda (i segugi di IMdb segnalano come location la contea di Meath, a nord ovest di Dublino). Cait è un tassello silente ed emarginato di quella che viene definita una famiglia “disfunzionale”: sorelle e fratelli che sbucano ovunque, come ne Il senso della vita dei Monty Python, con vestiti sporchi e bucati; giovane padre anaffettivo, scostante, dedito a sputtanarsi soldi ai cavalli; madre scorbutica, scorticata e inutilmente cinica coi figli. Entrambi i genitori non degnano di uno sguardo Cait anzi: la apostrofano “vagabonda”. Isolata a scuola come a casa, la bambina trae fortuna dell’ennesima gravidanza di mamma e dai suoi ultimi mesi di gestazione. Tanto che i genitori per togliersi dalle scatole quella figlia che ritengono fastidiosa ne approfittano per mandarla nella fattoria di una cugina a parecchia distanza da casa.
Qui la bimba gradualmente si apre, parla, si scioglie e riesce a sciogliere anche la spessa corazza che si erano cuciti addosso Eibhlin (l’ottima Carrie Crowley) e Sean per anestetizzare gli echi di una disgrazia accaduta loro tempo addietro. The Quiet Girl è impresso in un costrittivo e funzionale formato Academy (il 4:3 de Le otto montagne, come di Godland o dell’ultimo Sokurov – ) e s’imbeve di parecchie soggettive vagamente enigmatiche di Cait (la carta da parati, lo sfondo fuori dal finestrino, le spalle dei grandi) per un cinema che non vuole necessariamente battere nuovi territori di ricerca formale, ma porsi e centrare l’obiettivo del raccontare una storia commovente e misteriosa che parla all’anima dello spettatore. La magia e la malia di questo piccolo gioiello cinematografico stanno infine nel fondere la quiete di un paesaggio bucolico, ancorché con le sue asperità ambientali, con l’apparente tranquillità della protagonista che pronuncia pochissime parole, si muove quasi meccanicamente, come se stesse celando un segreto inconfessabile. In tutto questo la significante trasformazione fisico-estetica della piccola Cait è di rara delicatezza, affidata soprattutto all’espressività imperturbabile del viso della giovane attrice Catherine Clinch.
Davide Turrini – ilfattoquotidiano.it
All’interno di un piccolo dramma psicologico (che ne nasconde alle spalle altri molto più tremendi), colpisce la sicurezza mai corriva con cui l’autore, mentre disegna a punta fine gli aspetti più crudi di caratteri e relazioni tossiche (con battute sospese, inquadrature di volti e gesti, brevi dialoghi rivelatori), orchestra una “liberazione sentimentale” progressiva, lirica, in una corsa verso l’espressività e la consapevolezza. Comunicare tacendo è una gran dote. Come dice alla piccola Cait a un certo punto il parco, saggio e comprensivo Sean (praticamente l’unico irlandese equilibrato, non aggressivo e smodato mai apparso sullo schermo!): “Fai tesoro delle parole, ricordatelo sempre. Troppe persone non hanno taciuto quando era il momento di farlo e hanno pagato un prezzo molto alto” (consiglio peraltro quasi superfluo, data la riservatezza “patologica” della ragazzina).
Il movimento verso la maturazione psicologica della protagonista, interpretata da una intensa Catherine Clinch dai lineamenti finissimi e quasi angelicati, è discreto e sicuro come la chiarezza d’intenti di Bairéad. Da riprese ad altezza sguardo di Cait, con tanti personaggi ripresi di nuca, a evidenziare la sua esclusione e la noncuranza con cui viene considerata, si passa a una sempre più ariosa visione dell’ambiente e delle situazioni, per un film che sa decisamente cosa vuol dire e come trasmetterlo
Massimo Lastrucci – cineforum.it