Abbasso
VENEZIA, viva VENEZIA
di Alessandro
Tognolo
C’è
un nuovo direttore alla guida della
Mostra del
Cinema di Venezia.
Poco importa se Moritz de Hadeln è stato cacciato per motivazioni confuse,
per l’esito disastroso del festival dell’anno scorso (disastroso per chi?
in base a quali criteri?) o per le direttive dall’alto (vedi politiche
governative). Ora c’è Marco Müller
,
una garanzia, uno di cui ci si può fidare. In pochi
mesi ha messo in piedi
la
61a
edizione
della baracca festivaliera, appesantita sempre più dalle polemiche e dallo
sconforto. Ha preso subito delle posizioni precise, ha fatto delle scelte,
molte delle quali discutibili, ma le ha fatte. È per questo che Marco
Müller dà fiducia e rimarrà minimo (speriamo) altri tre anni alla
direzione.
Una mostra, quella del 2004, diversa nell’aspetto, con prospettive
più ampie, più strutturata e organica nelle sezioni, capace di
accontentare (quasi) tutti. Tralasciando la rinnovata (fascinosa?
inutile?) scenografia a illuminare la facciata del Palazzo – sessanta
leoni giganti posti su altrettante colonne, costati una cifra sbalorditiva
– il programma dei film è stato diviso in sei sezioni:
Concorso,
Fuori
concorso,
Corto
cortissimo
(uno spazio arricchito, rispetto agli anni scorsi, con ben ventisei
titoli), la parallela e competitiva
Orizzonti,
Mezzanotte
con i film a grande richiamo di pubblico, la neonata
Cinema
digitale…
In più, come sempre, la
Settimana
della critica
e la rassegna dedicata agli
Autori
italiani di serie B anni ’60 e ’70,
forte della affettuosa presenza di Tarantino e Joe Dante. Novità assoluta
per la mostra le
Giornate
degli Autori,
nate sulla scia della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes: uno spazio
autonomamente gestito dall’ANAC (Associazione Nazionale Autori
Cinematografici) e dall’API (Autori Produttori Indipendenti) per
presentare opere di autori non finanziati da grosse case di produzione.
In tanta abbondanza di proposte non si può certo dire
poi che l’Italia
non abbia trovato adeguata presenza al Lido, con autori promettenti
e/o affermati. Peccato però per l’esito: dall’incerto (negli intenti)
e vergognoso (nei risultati) Ovunque
sei
di
Michele Placido (addirittura in concorso), accolto con una sfrenata
e (non immeritata) dose di fischi e risate, a
L'amore ritrovato
di
Carlo Mazzacurati, senza arte né parte; all’imbarazzante Il
filo pericoloso delle cose,
episodio del trittico
Eros
girato
da Antonioni - non si sa bene in che modo, visto le condizioni in
cui si trova… sarebbe bene interrogare in proposito la moglie
coercitiva - che si riduce per lo più a mostrare i bellissimi corpi
nudi delle due attrici (Luisa Ranieri, Regina Nemni), a
Vento di terra
e Nemmeno
il destino
che deludono viste le buone prospettive con cui Marra e Gaglianone
avevano esordito (Tornando
a casa
e
I
nostri anni),
proponendo per l’ennesima volta storie di vita ai margini di standardizzata
rappresentazione.
Discorso completamente diverso per
Le chiavi di casa
di Gianno Amelio, maturo e toccante, e per L’ora
della lucertola
e
Una
bellissima bambina di
Mimmo Calopresti, girati in digitale, uno un documentario sull’artista
ottantaseienne Mimmo Rotella, l’altro un corto, lieve percorso sull’illusione
e l’impossibilità di un desiderio (ricreare Marylin Monroe). Una piacevole
sorpresa sono state le opere prime:
Il giorno del falco
di Rodolfo Bisatti(padovano!) e, soprattutto,
Saimir
di Francesco Munzi. Il regista romano, classe ’69, segue la tendenza
oramai predominante nel cinema italiano di rappresentare i sobborghi
della provincia degradata (in questo caso della costa laziale), e
mette in scena con rara semplicità il percorso di integrazione di
un giovane ragazzo albanese -
Saimir appunto
- e la sua famiglia, distaccandosi dall’esasperazione a cui tendono
gli eventi narrati (il più delle volte tragici) e mostrando gli effetti
interiori, inquietanti, che si producono nei protagonisti (interpretati
da attori albanesi, professionisti e non).
Per il resto non si è badato molto alla ricerca di cinematografie
meno conosciute (per questo bisogna affidarsi ormai a festival minori
e di genere…) e ha prevalso l’autorialità di consumata esperienza:
Claude Chabrol, come sempre impeccabile, con La
demoiselle d'honneur,
storia sulla follia dell’amore tra due giovani (la bellissima Laura
Smet e Benoit Magimel); il ritrovato Wim Wenders con
Land of Plenty,
sguardo sull’America post 11 settembre; Mira Nair, ammaliata da Hollywood,
con la trasposizione, "meticcia" di
Vanity Fair;
l’immancabile Amos Gitai con l’agghiacciante Promised
Land,
percorso verso la prostituzione di un gruppo
di donne dell’est; Jonathan Demme con il fantapolitico
The Manchurian Candidate,
remake dell’omonimo film di John Frankenheimer (Denzel Washington
nel ruolo che fu di Frank Sinatra); il bellissimo Collateral
di Micheal Mann e lo spiazzante
Palindromes
di
Todd Solondoz;
O quinto imperio
di Manoel de Oliveira, meritato Leone alla carriera e il terzo capitolo
dell’epocale
Heimat di Edgar Reitz. Come
sempre i premi si sono rivelati quanto di più aspettato si potesse
prevedere e tanto sono piaciuti alla giuria
Vera
Drake
di Mike Leigh e
Mar adentro
di Alejandro Amenabar da meritarsene ben due ciascuno (Leone
d’oro,
Leone d’argento
e
Coppa Volpi
per le interpretazioni di Imelda Staunton e Javier Bardem).
Tra la confusione organizzativa nel Lido assediato da
divi e meno divi, sono passati comunque una serie di film davvero
notevoli, certamente meno acclamati, e, in modo diverso l’uno dall’altro,
con quel qualcosa in più che li rende in fondo un lustro per gli occhi
(e la mente). Quel che forse più sorprende (o preoccupa, a seconda
dei casi) è la comune provenienza di queste pellicole. Cresce sempre
più, infatti, la qualità delle opere provenienti dall’Oriente
– in particolare Giappone, ma anche Cina e Corea - a conferma
di una vitalità che è ormai risaputa e che, finalmente, sta chiaramente
affermandosi anche in occidente.
La mostra di quest’anno è la conferma di questa tendenza: Kim
Ki-duk Ferro
3),
Shinya Tsukamoto (Vital),
Hayao Miyazaki (Il
castello errante di Howl),
Hou Hsiao-Hsien (Café
Lumière),
Takashi Miike (Izo),
Jia Zhangke (The
World),
Matsuo Suzuki (esordiente, con Otakus
in amore).
Una menzione a parte merita
La mano
di Wong
Kar-wai, primo seducente episodio del già citato
Eros.
Notevole, affascinante, un assaggio dell’incanto del suo
2046,
quasi un capitolo in più. Il tema è l’amore, ovviamente, come solo
Kar-wai è in grado di affrontare. Il luogo, Shangai, l’anno, 1963.
Anche gli stessi interpreti, Tony Leung, un sarto ingabbiato nella
bellezza della prostituta Gong Li. L’atmosfera è rarefatta e satura,
così come l’erotismo. Del resto basta il solo sguardo dei protagonisti
per capire cosa provano, per vivere quel che vivono.
L’Europa sembra impantanata invece in una profonda staticità. Poche le
eccezioni (Strings)
e molte più le delusioni, anche a livello di "consenso". Un caso, emblematico, su tutti: ci si chiede come
sia possibile che un autore come Arnaud Desplechin, conosciuto e
apprezzato in Francia (presente al Lido con
Rois
et Reine), venga snobbato
dal pubblico e da certa parte di critica e non riesca a trovare, con una
distribuzione adeguata, il riscontro che meriterebbe!
Nel bene e nel male
Venezia resta
la vetrina perfetta del cinema del nostro
tempo.
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