maggio 2018

periodico di cinema, cultura e altro... ©
 

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Reg.1757 (PD 20/08/01)

 

TORINO FILM FESTIVAL

24 novembre - 2 dicembre 2017

   L’appuntamento con il Torino Film Festival porta con sé la certezza e il piacere del ritorno in un luogo prediletto e rassicurante. La struttura consolidata delle sezioni in cui è suddivisa l’offerta di film, unita al piacere di trovare nomi di autori diversissimi tra loro e che - con le dovute differenze - sono accumunati da uno spirito combattivo e ribelle di continua interlocuzione verso il mezzo cinematografico, rendono Torino un punto di incontro quasi irrinunciabile per chiudere l’anno e prospettare una sorta di valutazione di una stagione (cinematografica) che si è conclusa e quella che si compirà a venire. Il TFF si presta come di consueto a traiettorie tra le più differenti tra loro e il destino dello spettatore sta proprio nella scelta e nell’occasione offerta dal palinsesto.
Da qui, percorrendo le varie sezioni (e scoprendo in
Festa Mobile lo spendido I segreti di Wind River!) si può arrivare ai territori che più hanno caratterizzato la direzione di Emanuela Martini, ovvero la sezione After Hours, con le sue venature horror, dark, thriller e di genere che la compongono e che ben si amalgamano con l’atmosfera occulta della città che le ospita. Immancabili dunque gli zombi, presenti in Les affamés del canadese Robin Aubert, nel quale di racconta la rincorsa alla sopravvivenza dei pochi umani rimasti nelle campagne del Québec, in un’ambientazione rarefatta e tra ricordi strazianti, e nel film irlandese The Cured di David Freyne, una storia post-epidemia zombie, sul tormentoso reinserimento degli infettati "curati", ma ossessionati da flash delle stragi compiute e tenuti a distanza dai "normali" sopravvissuti.
Oltre a zombie, fantasmi, tanto sangue, due film italiani fuori dagli schemi (
Favola di Sebastiano Mauri e con Filippo Timi e Riccardo va all'inferno di Roberta Torre, rilettura contemporanea di Riccardo III), una commedia cinefila, ironica, demenziale e di certo indimenticabile, The Disaster Artist, prodotta, diretta e interpretata da James Franco, nei panni di Tommy Wiseau, una sorta di Ed Wood del terzo millennio, autore nel 2003 di The Room, giudicato talmente brutto da essere diventato un cult.
La vera certezza è però Sion Sono, la cui retrospettiva iniziata nel 2011 si arricchisce di anno in anno di nuovi capitoli dal carattere imprescindibile, presente con
Tokyo Vampire Hotel, riduzione cinematografica di una serie televisiva prodotta da Amazon. E poi c’è il piacere di imbattersi in produzioni indipendenti piene di passione e tensione, come Most Beautiful Island, scritto diretto e interpretato con fierezza e umiltà dall’attrice spagnola Ana Asensio in trasferta oltreoceano.

Alessandro Tognolo

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Emanuela Martini, nell'anno di scadenza del suo mandato triennale, che fortunatamente è stato rinnovato, ha voluto lasciare un segno personalissimo con due iniziative che portano chiaramente la sua firma: la retrospettiva dedicata a Brian De Palma e Non dire gatto...
L
a sezione, che  ha trovato il suo completamento nella divertente mostra Bestiale! Animal Film Stars allestita al Museo del Cinema alla Mole Antonelliana, prevedeva la proiezione di sei film con gatti protagonisti: dall'esilarante Rhubarb (1951) di Arthur Lubin, con il gatto divo Orangie (interprete indimenticabile anche di Colazione da Tiffany), al cupo Black Cat (1981) di Lucio Fulci, allo sperimentale Chat Ecoutant la Musique (1990) di Chris Marker, al più noto Bell, Book and Candle (Una strega in paradiso-1958) di Richard Quine,  da cui è tratta la splendida immagine del manifesto del Festival.

Per quanto riguarda la retrospettiva su Brian De Palma, va detto che è sicuramente una delle più complete e curate (sul regista di Newark la Martini ha redatto per l'occasione una preziosa monografia) che ha offerto al pubblico la possibilità di rivedere i suoi grandi capolavori e di scoprire film inediti in Italia (anche il suo ultimo lavoro Passion, presentato alla Mostra di Venezia, ma che da noi non ha mai trovato distribuzione) o che risalgono ai suoi primi approcci col cinema. In tutto ben 32 titoli con due memorabili rarità, Woton's Wake e Murder à la Mod, che appartengono agli esordi di De Palma.
Un regista, che non ha bisogno di presentazioni, ma per il quale vale la pena di riportare qui la perfetta e condivisibile fotografia, che ne fa
Emanuela Martini nel catalogo del Festival.

“Ha materializzato paure, incubi, ossessioni frammentate; ci ha trascinato dentro i labirinti dell’immaginario collettivo novecentesco; ha dato corpo ai fantasmi del nostro inconscio: Brian De Palma, uno dei maggiori autori emersi dal cinema americano anni Settanta, maestro di stile, erede di Hitchcock (ma anche grande ammiratore di Godard ed Ejzenštejn), sempre in bilico tra un’anima di artista indie e le regole del gioco che Hollywood detta. Newyorkese, amico e sodale di Martin Scorsese (con il quale condivide passioni da cinéphile come quella per il cinema di Michael Powell), De Palma ha visto ingiusti insuccessi trasformarsi in cult movies (Il fantasma del palcoscenico), ha per primo realizzato un film da un romanzo di Stephen King (Carrie - Lo sguardo di Satana), ha fatto emergere dalla trama dei film di genere la filigrana delle teorie sulla visione e sull’eccesso di immagini dal quale siamo sommersi. Ha diretto alcuni dei thriller più belli degli ultimi quarant’anni (Vestito per uccidere, Blow Out), ha dato vita a due giganteschi maudit del gangster movie (Tony Montana in Scarface e Carlito Brigante in Carlito’s Way, epiche interpretazioni di Al Pacino), ha ricreato le atmosfere più insidiose del noir (Femme fatale, Black Dahlia, dal romanzo di James Ellroy), ha registrato le atrocità indotte dalle guerre (Vittime di guerra, Redacted). Sempre rielaborando una lingua che è tra le più raffinate e consapevoli del cinema hollywoodiano, sempre scavando nell’intricata rete degli sguardi, umani e artificiali, delle riproduzioni, dei riflessi, dei suoni, delle fantasie, dei sogni dentro ai quali ci perdiamo quotidianamente.”

Un giusto tributo ad uno degli autori più interessanti e controversi emersi dalla cosiddetta “Film generation” degli anni '70', che, dopo essere stato osannato dalla critica americana, ha subito, soprattutto nell'ultimo decennio, un ostracismo, che gli ha creato non poche difficoltà anche a livello di produzione, tanto è vero che il suo ultimo film è stato prodotto e girato in Germania.

Cristina Menegolli

Su MCmagazine si possono trovare le recensioni di The Black Dahlia (n° 18),  Redacted (n° 20) e Passion (n° 33)

 

 
 

gennaio - maggio 2018

 
 
FESTIVAL DI BERLINO

15 - 25 febbraio 2018

Una catastrofe. Non sembri esagerata la parola per definire la Berlinale di quest'anno, la sua giuria e il suo Palmares.
A cominciare dall'
Orso d'oro (col sovrappiù del premio opera prima!) a Touch Me Not della rumena (ma stabilita da tempo in Germania ) Adina Pintilie. Un film che ti lascia di stucco, classificato all'ultimo posto da quasi tutte le giurie internazionali da Variety o Hollywood Reporter. Una specie di cinema-verité in ritardo, con tanto di regista che ogni tanto salta al di là della macchina da presa e comincia a recitare. Un polpettone verboso e inguardabile sul tema (sembrerebbe) del diritto al sesso (liberatorio of course) per anziani, disabili e altro. Con diritto a nudi espliciti, masturbazioni, gigolo, travestitismi, bondage e chi più ne ha più ne metta...
Pensiero cattivo: il non accreditatissimo Tom Tykwer (la sorpresa di Lola corre nel 1998, ma poi?), messo a capo della giuria dal direttore uscente Dieter Kosslick, voleva per forza favorire un film tedesco? Ma allora aveva solo l'imbarazzo della scelta, tra il delizioso
In den Gänge (Nei corridoi) dell'esordiente Thomas Studer, o il controverso film di
di Philip Groning My Brother's Name is Robert and He Is an Idiot, a cui non si può non riconoscere la padronanza di linguaggio cinematografico e un'ambizione genuinamente autoriale.
Un Festival già discutibile nelle scelte: come tralasciare il cinema rumeno che proprio qui a Berlino ha mostrato alcune delle sue cose più belle, da Il caso Kerenes ad Aferim; e come giustificare la presenza in concorso di un film demenziale come Damsel dei fratelli Zellner che, nel vano tentativo di "destrutturare", di svelare il meccanismo del racconto western, cade e si compiace per quasi due ore di una comicità greve da comica finale? O del francese Eva, che riesce quasi a far cadere nel ridicolo anche Isabelle Uppert?
Ma cerchiamo di consolarci coi film salvabili e anche buoni, visti o intravisti nell'accumulo delle giornate berlinesi: a parte
Isle of Dogs, lo stop-motion di Wes Anderson (dicono straordinario...) e che probabilmente ha sofferto ancora una volta del pregiudizio festivaliero contro l'animazione essendosi dovuto accontentare del premio per la miglior regia, ecco l'Orso d'argento-Gran Premio della Giuria a Mug della regista polacca Malgorzata Szumowska, onnipresente beniamina del festival (nel 2016 era suo Corpi, arrivato in Italia garzie alla distribuzione indipendentepoi distribuito in Italia da Cineclub International ). Mug è un nuovo ritratto 'gridato' di una Polonia ormai pericolosamente avviata verso una deriva di oltranzismo cattolico. Al centro della storia, la costruzione di un Cristo in cemento armato "più grande di quello di Rio de Janeiro"! Ancora, tra le cose apprezzabili, il brasiliano Las herederas (premio alla miglior attrice Ana Brun) e il vigoroso franco-belga La prière, orso d'argento meritatissimo al giovane Anthony Bajon.
Ma poi? D'accordo che 
Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, pur ridando tono alla filmografia di Gus Van Sant, non era certo in corsa per un qualche riconoscimento ma lo straordinario Dovlatov di Alexey German Jr,  il più meritevole del massimo trofeo, si è dovuto accontentare del premio per costumi e ambientazione e Transit di Petzold, altro tedesco di indubbia qualità, non è stato preso in considerazione dalla giuria. Che dire infine dell'unico italiano in gara, Figlia mia di Laura Bispuri? Poco... veramente poco, in tutti i sensi.
E intanto (per guardare avanti) sulla stampa tedesca e internazionale fioccano le polemiche e i consigli per il nuovo direttore (ancora sconosciuto) che entrerà nel 2020: dalla necessità di ridurre le sezioni, ormai proliferate al numero monstre di 14 (Venezia e Cannes ne hanno quattro o cinque), alla richiesta di una maggiore 'leggerezza' nella scelte e. perché no, di una maggiore attenzione al lato glamour della festa (e attenzione anche al boom del mercato,che rischia di fagocitare il concorso...). In pratica, un limite alla 'political correctness', che rischia di diventare pesante e controproducente.
Come dimostra il fatto che agli Oscar e Golden Globes vari, i film provenienti da Berlino sono sempre più rari!

Giovanni Martini

 
 

uscita nazionale: 5 aprile - 24 aprile

 
 

FAR EAST FILM FESTIVAL (Udine)

20 - 28 aprile 2018

Ma cosa ci fanno gli scombinati zombie giapponesi di Ueda Shinichiro sul podio dei vincitori di questa 20° edizione del FEFF assieme ai pluri premiati autori coreani? Così come il clima insolitamente soleggiato, quest'anno anche l'esito della premiazione si può dire sorprendente e nel contempo rivelatore della duplice anima del pubblico del Far East (è noto che a Udine non c'è giuria, ma a decidere i premi sono i voti degli spettatori).
Vincitore è risultato il film coreano 1987: When The Day Comes di Jang Joon-hwan (Gelso d’Oro e Gelso Nero, il premio degli accreditati Black Dragon). Al secondo posto troviamo One Cut Of The Dead di Ueda Shinichiro e, al terzo, ancora la Corea con The Battleship Island di Ryoo Seung-wan. I web-giurati di MYmovies hanno scelto The Empty Hands, delicato film sul karate, del mito hongkonghese Chapman To. Sudcoreano, infine, anche Last Child di Shin Dong-seok, Gelso Bianco per la migliore opera prima.

Il trionfo della Corea, salutato dagli organizzatori come un auspicio se non un'anticipazione di una futura riappacificazione del paese, risponde alle scelte di un pubblico, che privilegia l'impegno politico e sociale o la spettacolarità di una ricostruzione epica di eventi del passato: sia 1987: When The Day Comes sia The Battleship Island rievocano infatti due tragiche pagine della storia, collocate, l'una nel 1987, quando un pubblico ministero indaga sulla morte per tortura di uno studente universitario, ucciso durante le manifestazioni contro la dittatura di Chun Doo-hwan e l'altra nel 1944 quando, durante la dominazione giapponese, si verificò una strage di civili innocenti, ricostruita da Ryoo Seung-wan, grazie ad un budget stellare, puntando sull'impatto epico, spettacolare.
A completare il trionfo coreano il premio a
Last Child, dramma a forti tinte emozionali sul rapporto tra due genitori, che hanno perso il figlio e l'amico che ha cercato di salvarlo dall'annegamento.

Se un filo di coerenza lega la predilezione assegnata a questi tre film, del tutto fuori dal coro e perciò sorprendente, risulta il secondo premio assegnato al lavoro di Ueda Shinichiro, One Cut Of The Dead (Il piano sequenza dei morti viventi), che, pur essendo stato proiettato ad un'ora notturna, che ha sicuramente limitato il numero di presenze in sala e quindi di votanti, ha ottenuto una marea di consensi, specchio dell'entusiasmo di quegli spettatori, che rappresentano proprio quella seconda anima che da questo festival si aspetta scelte radicali e innovative, come spesso succedeva in passato. Il film, coi toni della commedia, ribalta il genere zombie in una riflessione sul cinema stesso e sul rapporto realtà rappresentazione, in modo del tutto originale e fuori da qualsiasi schema. In una fabbrica abbandonata un regista piuttosto isterico sta girando in un unico piano sequenza un film sugli zombie, quando dei veri zombie irrompono sul set. Nonostante la carneficina, il regista continua a girare, mentre attori e membri della troupe vengono trasformati in veri morti viventi, cosicché il film avrà come spettatori solo gli zombie stessi: l'oggetto della visione ne diventa il soggetto.
Come si era notato già nelle precedenti ultime edizioni del festival, i film di genere, che peraltro costituiscono la marca distintiva di questa manifestazione, rivelano segni di innegabile stanchezza e obsolescenza, con l'eccezione di quelli, come One Cut Of The Dead, che ne ribaltano gli schemi o che se ne pongono ai margini. Al contrario dell'indonesiano
Satan's Slaves, di Joko Anwar, che purtroppo si è preso sul serio con dei fantasmi, che hanno solo suscitato l'ilarità del pubblico.

Come aveva malinconicamente dimostrato Kitano in Outrage-Coda, visto a Venezia, il gangster movie e il noir, sono quelli che maggiormente risentono di una ripetitività, che non ha più niente da dire, rispetto ai capolavori del passato.
Deludenti si sono rivelati
The Blood Of Wolves di Shiraishi Kazuya e il tanto atteso A Special Lady di Lee An-gyu, mentre una piacevole sorpresa sono stati The Chase di Kim Hong-sun (in cui un odioso pensionato indaga su una serie di misteriose morti e sparizioni) e soprattutto Smaller And Smaller Circles del filippino Raya Martin, che qui si misura con un genere per lui inusuale, riuscendo tuttavia a far emergere le contraddizioni della società del suo paese, divisa in caste e governata da corruzione, pregiudizi e ipocrisia, attraverso il racconto preciso e rigoroso di un'indagine condotta da due preti sulle tracce di un serial-killer di bambini.
Altro genere sofferente di afasia e generatore di noia è il cosiddetto “teenagemovie”, che pure nel passato aveva prodotto degli esperimenti interessanti. Unica eccezione
Bad Genius del thailandese Nattawut Poonpirya, che racconta, con un ritmo da thriller, i vari metodi inventati da una geniale studentessa liceale, per vendere ai compagni la soluzione dei compiti e dei test.

Nell'ambito della ricostruzione storica si colloca, assieme ai vincitori, anche il film hong-konghese No.1 Chung Ying Street di Derek Chiu, uno dei più interessanti e belli della rassegna. Il regista ricostruisce due momenti importanti della storia della sua città, seguendo il percorso di una giovane studentessa di architettura coinvolta prima negli scontri di operai e studenti contro il dominio britannico a favore di un passaggio alla Cina di Mao (1967) e poi nelle lotte contro la speculazione edilizia di un futuro prossimo (2019). Senza enfasi o sentimentalismo Chiu riesce comunque, grazie anche alla splendida quanto malinconica fotografia in bianco e nero, a comunicare allo spettatore la sua empatia nei confronti della storia della sua città.

Altri due film che meritano di essere segnalati sono Night Bus dell'indonesiano Emil Heradi e il giapponese The Scythian Lamb di Yoshida Daihachi. Il primo apparentemente rientra nello schema classico che prevede l'incontro e le interrelazioni tra vari personaggi costretti a convivere in uno spazio chiuso, un autobus in questo caso. Ma man mano che il viaggio verso Samper si inoltra in una zona di conflitti interni, in seguito agli incontri-scontri con l'esercito, i mercenari e i rivoluzionari, esso diventerà una discesa nell'abisso, facendo esplodere le dinamiche interpersonali in una tensione crescente, che inchioda lo spettatore, grazie al pieno controllo del ritmo narrativo del regista.
Ammirevole soprattutto per la perfetta architettura della sceneggiatura è
The Scythian Lamb, un film costruito attorno al giovane protagonista interpretato dall’idolo pop e attore Nishikido, che, su incarico del piccolo comune in cui vive, deve accogliere e far ambientare dei nuovi residenti destinati a ripopolare il paesino. Sennonchè scoprirà ben presto che si tratta di assassini che godono della libertà sulla parola. Yoshida si rivela un maestro nella leggerezza con cui sviluppa i delicati rapporti che si vengono ad instaurare tra i personaggi. Un film del tutto fuori da qualsiasi schema, pur essendo tratto da un manga e capace di stupire e di coinvolgere emotivamente lo spettatore, trasportato da scenari da thriller a drammi sociali, ad atmosfere degne di Black Mirror.

Il FEFF di Udine si conferma sempre come un'occasione da non perdere e fa piacere constatare che l'innegabile e mai abbastanza elogiata capacità organizzativa dei suoi promotori assieme alla cortese e generosa ospitalità (arricchita quest'anno dai Ramen dello chef Luca Catalfamo) sono state premiate dalla presenza di 60.000 spettatori, di cui 1555 accreditati da tutto il mondo. Anche se, come sempre purtroppo, sono proprio i grandi quotidiani italiani che hanno dato poco o nessuno spazio all'evento. Non resta che darsi appuntamento a Udine, per Far East Film Festival 21, dal 26 aprile al 4 maggio 2019.

Cristina Menegolli

 
 

in rete dal 18 maggio 2018

 

 

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