Tre volti

Jafar Panahi

La diva iraniana Behnaz Jafari riceve un videomessaggio di una giovane ragazza che filma il proprio suicidio, giunta alla disperazione per non poter realizzare il suo sogno di diventare attrice. Pur sospettando che si tratti di una simulazione per attirare l’attenzione su di sé, Behnaz si mette in viaggio col regista Jafar Panahi per recarsi al villaggio della ragazza: incontri, testimonianze… Con una “piccola” idea, Jafar Panahi realizza un grande film sulla condizione della donna nell’Iran di oggi, evidenziando il ricorrente rapporto popolare col sogno del cinema!


Se rokh – Trois Visages
Iran 2018 – 1h 42′

CANNES 2018 – Premio per la sceneggiatura (ex-aequo)

 CANNES – Da quando, nel 2010, una sentenza del tribunale religioso iraniano gli vieta ufficialmente (e per i prossimi 20 anni) di girare film e di uscire dal paese, il regista Jafar Panahi non si è certo dato per vinto, inventandosi una specie di cinema autarchico, fatto in casa, senza mezzi né personale tecnico né attori veri e propri e con se stesso come protagonista. E riuscendo tra l’altro a far giungere i suoi film (clandestinamente? col tacito assenso delle autorità?) ai maggiori festival internazionali che naturalmente guardano a lui con grande simpatia.

Ma se This is not a film era girato nel suo appartamento e Closed curtain nella sua casa al mare, già Taxi Teheran (2015) lo vedeva muoversi nelle vesti di un tassista per le strade di Teheran coi vari ”passeggeri“ a comporre un variegato affresco della società iraniana (giustamente premiato a Berlino con l’orso d’oro). Tre anni dopo rieccolo a Cannes, alla guida questa volta di un 4×4 e diretto nella notte verso uno sperduto villaggio dell’est iraniano al confine colla Turchia. Ed é impossibile non pensare anche ad un omaggio di Panahi al recentemente scomparso Abbas Kiarostami, di cui era stato aiuto regista, e specialmente al suo road movie The wind will carry us: anche lì il protagonista cittadino viaggiava verso un remoto villaggio alla ricerca di una sua verità.
Stavolta Panahi ha al suo fianco, e anche lei nella parte di se stessa, la famosa attrice di telenovelas Behnaz Jafari. Il motivo (il pretesto come vedremo in seguito) è nella prima sequenza, girata con un telefonino in una grotta, dove una ragazza disperata la accusa di non aver risposto ai suoi appelli e di averle negato il suo aiuto; era stata ammessa ad una importante scuola di arte drammatica ma la sua famiglia le ha impedito di partire ed anzi la ha promessa in sposa ad uno sconosciuto. La ragazza minaccia di impiccarsi ed il filmato finisce ex abrupto con a visione di un laccio e il rumore di un corpo che cade. La sequenza è stata inviata al regista da un’amica.
Verità o finzione? Gia qui il nostro introduce una riflessione sui nuovi mezzi di comunicazione come il cellulare, in grado di creare una loro realtà fittizia e soprattutto capaci di trasmetterla ad un numero infinito di soggetti volenti o nolenti. Ad ogni modo la Jafari, che si sente in qualche modo responsabile e Panahi si mettono in viaggio per raggiungere il villaggio e scoprire la verità. Basterà poco per rendersi conto che si è trattato tutto di una messa in scena, ma intanto il regista ci guida alla scoperta di un Iran rurale così diverso da quello della capitale Teheran.
Nessuno vuole sentir parlare di Marziyeh (così si chiama la ragazza); è considerata una scervellata, una poco di buono, solo la madre la difende, il fratello vorrebbe ucciderla, e così via. Ed ecco entrare in campo un’altra protagonista, una famosa attrice dell’epoca dello Shah (anch’essa realmente esistita) a cui dopo l’avvento degli ayatollah è stato impedito di recitare e che vive come una reclusa in una capanna al margine del paese. È ‘ diventata “invisibile” (e infatti non la si vede mai durante tutto il film) proprio come Panahi, eppure come lui non rinuncia all’arte  dipingendo e scrivendo poesie. È lei la terza delle ”three faces” del titolo, oltre alla diva affermata Jafari (peraltro anche lei schiava del suo ruolo: i produttori la minacciano perché ha abbandonato il set senza avvisare, i contadini le chiedono di cambiare il finale della telenovela) e alla giovane Marziyeh che forse non riuscirà a realizzare il suo sogno.
Tutto attorno il quadro di una società profondamente machista, misogina; vedi l’esaltazione del toro stallone o l’assurda credenza nel potere salvifico della pelle di un prepuzio che viene ”affidato“ a Panahi!
Obiettivamente, nella seconda parte il film scade un po’ nel bozzettistico etnografico (altro era il respiro squisitamente politico di Taxi Teheran ) e forse anche nell’ovvio; non possiamo astenerci dal pensare che fino a qualche anno fa anche nel Sud d’Italia o di altri paesi non fosse ben vista l’intenzione di una giovane di andare a fare l’attrice. E senza contare che in tutte le società da sempre il binomio artista-prostituta è sempre stato presente. Ma tant’è; sbollita la rabbia di Behnaz per l’inganno subito, le tre generazioni si incontrano…
Bella e significativa la scena finale: le due donne più giovani scendono per tornare a casa (libere? Incontro al loro destino?) mentre, nell’altro senso, camion di mucche in calore salgono i tornanti della montagna per il rito del l’accoppiamento.
Pensiero finale: siamo nell’anno di #me too; è solo una coincidenza o anche Panahi ha voluto dare il suo contributo contro la discriminazione della donna e dell’attrice in particolare?

Giovannni Martini – MCmagazine 46

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