In Fabric

Peter Strickland

Un abito rosso sangue venduto da un lussuoso grande magazzino trasmette una maledizione a chiunque lo indossi.


Gran Bretagna, 2018 – 1h 58′

 TORINO – Quello del cinema di genere, si sa, è un terreno difficile da percorrere e, soprattutto negli ultimi anni realizzare un film horror di qualità è diventata un’impresa ardua, vuoi per le regole commerciali troppo serrate, vuoi per il rischio della ripetitività..

Fortunatamente però in mezzo al buio ci sono spesso spiragli di luce, come quella emanata dal vestito rosso fiammante, attraente, ma portatore di una maledizione, che funge da motore narrativo nel sorprendente film di Peter Strickland.
Giunto al suo quarto lavoro (dopo Katalin Varga, Berberian Sound Studio e The Duke of Burgundy) il regista inglese si conferma infatti per uno stile inconfondibile all’interno dell’universo Horror, uno stile fatto di atmosfere straniate e surreali, di una recitazione impressionista, di arredi retrò e dei colori saturi e contrastati del Technicolor.
In Fabric colpisce infatti non tanto per la storia in sé, che in fondo si rifà ad un topos tipico del genere: l’oggetto portatore di una maledizione che colpisce chi ne viene in possesso (vedi la serie giapponese The Ring), quanto per il modo del tutto originale in cui il regista affronta la materia, con uno stile non fine a se stesso, ma che si fa esso stesso racconto, laddove, al contrario, gli eventi sono scontati.

Il film è diviso in due parti: nella prima una impiegata alle prese con un matrimonio fallito e con un figlio insopportabile, in vista di un incontro galante, si lascia sedurre da un abito da sera rosso, che una strana commessa di un grande magazzino la convince a comprare. Inutile dire che da quel momento la sua vita diventerà un inferno. La seconda parte è in qualche modo una ripetizione della prima, ma questa volta la maledizione dell’abito colpirà un noioso riparatore di lavatrici, costretto ad indossarlo dagli amici per scherzo durante una festa.
Ma al di là dello sviluppo della storia, il film lavora sulle singole sequenze, che reggono a sè stanti, tanta è la cura con cui sono costruite e che stimolano e nel contempo disorientano lo spettatore. Chi è la strana commessa abbigliata in modo anacronistico, con un volto imbiancato a metà fra una maschera kabuki e una strega, che si esprime in rima e che, finito il lavoro, si infila in un montacarichi per scomparire nel sotterraneo del grande magazzino? E chi è veramente il proprietario del negozio, che si masturba assistendo alla vestizione dei manichini? E perchè uno di questi manichini a un certo punto comincia a sanguinare come se avesse le mestruazioni?
Il vero luogo dell’orrore è questo tempio del glamour, dai cui sotterranei tutto sembra avere inizio, ma sarebbe del tutto riduttiva una lettura del film solo in chiave di critica al consumismo e al mondo capitalistico, in questo senso Zombi di Romero resta ineguagliato. L’originalità di Strickland sta invece nei dettagli, nel non detto, nel lasciare volutamente delle questioni irrisolte, che danno spazio all’interpretazione dello spettatore. La sua visionarietà tradotta in atmosfere sadiche, in dialoghi legnosi, in una messinscena kitsch, in effetti sonori elettronici e nell’uso del technicolor riconduce a certo cinema italiano di Dario Argento, Umberto Lenzi, Lamberto Bava.
Strickland lavora accumulando scene, intiuzioni, sensazioni sinestetiche, rimandi, iniettando un humor sempre un po’ al limite, ma mai di troppo in una storia che di fatto è un horror, indicando così nuove direzioni a un genere ormai spompato da remake, sequel e reboot vari.

Cristina Menegolli – MCmagazine 48

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