Manta Ray

Phuttiphong Aroonpheng

In un villaggio costiero thailandese un pescatore si imbatte in un uomo ferito e privo di sensi. Portatolo in salvo, gli offre amicizia e ospitalità, e gli dà anche un nome, dato che è completamente incapace di parlare. Quando il pescatore scompare all’improvviso in mare, l’ospite incomincia lentamente ad impadronirsi della vita dell’amico… Fulminante apologo sul senso profondo del sopravvivere (dedicato alla tragedia dei rifugiati Rohingya) Manta Ray è un film che lavora per sottrazione affidandosi ad impercettibili snodi narrativi. Un’opera visivamente affascinante, luminosa, rarefatta, incisiva come un poema.

 

Kraben Rahu
Tailandia/Francia/Cina 2018 – 1h 45′

75° Festival di VE: miglior film della sezione ORIZZONTI

 VENEZIA – Rompong: in Indonesia è chiamata così la “trappola fluttuante” illuminata da lampade utilizzata per catturare il pesce di notte. È quella che usa il protagonista del bel film di Phuttiphong Aroonpheng, dove le luci, disseminate per gran parte delle scene notturne, svolgono una funzione fondamentale nello scivolamento continuo da una realtà ad un’altra o meglio dalla realtà alla surrealtà.

Il film racconta effettivamente una storia “reale”, carica anche di implicazioni etiche: il giovane sconosciuto rappresenta uno dei tanti Rohinga, che scappando dalle persecuzioni in Birmania, finiscono per annegare nel tentativo di raggiungere la Thailandia, “corpi di rifugiati, la cui voce rimane inascoltata…ma che non deve scomparire…Io l’ho registrata perchè voglio che continui ad esistere”, dichiara il regista.
Ma una lettura che si fermi su questo aspetto risulta limitativa in quanto Manta Ray è una riflessione non solo sul rapporto con l’ altro, ma anche sulla consapevolezza dell’altro come specchio di una doppia esistenza: è il racconto dell’incontro con un antagonista che si impadronisce della vita del protagonista, aprendo così l’accesso ad una realtà parallela, ad un soprannaturale che lambisce la vita del reale.
Phuttiphong Aroonpheng, pur mantenendosi all’interno di precise coordinate temporali funzionali allo sviluppo della vicenda, riesce a creare una specie di mondo parallelo fatto di segni quasi alieni, estranei alla interpretazione della realtà contingente: pietre quasi pulsanti di vita, luci irreali che invadono la foresta, personaggi che si aggirano nel bosco senza scopo. Si tratta di segni, di tracce che non hanno bisogno di una spiegazione poiché, molto più semplicemente, appartengono a quell’altro mondo, quello fantastico e surreale che ci vive attorno.
La magia di quel mondo non può non rievocare le atmosfere del grande regista thailandese Apichatpong Weerasethskul, ma il pregio di Aroonpheng è quello di aver cercato una strada autonoma nel rispetto di una tradizione culturale alla quale egli stesso dichiara di appartenere. Il giovane regista, che viene dal mondo dell’arte (videoinstallazioni, cortometraggi sperimentali) e che si dichiara ispirato da registi come David Lynch e Tsai Ming-liang, con questo suo primo lungometraggio ha il merito di aver cercato di aprire nuove prospettive di sguardo capaci di ridefinire i confini tra la realtà e quella identità sfuggente e misteriosa, come una manta, che solo il cinema riesce a far emergere attraverso la fascinazione e l’oscura ambiguità delle immagini.

Cristina Menegolli – MCmagazine 47

 

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