A White, White Day

Hlynur Palmason

In una piccola città sperduta in Islanda, un commissario di polizia in congedo sospetta che un uomo del posto abbia avuto una relazione con sua moglie, morta in un tragico incidente due anni prima. La sua ricerca della verità diventa ossessione. E inevitabilmente lo porta a mettere in pericolo se stesso e i suoi cari.

Hvítur, Hvítur Dagur
Islanda 2019 (124′)
TORINO 37° – miglior film

 TORINO – Il film si apre con una lunga sequenza, in cui la camera fissa inquadra una casa isolata immersa in un paesaggio deserto, in cui i cambiamenti climatici, neve, pioggia, vento, nuvole si alternano, parallelamente al progressivo restauro dell’edificio.

Una evidente sottolineatura di come il paesaggio islandese, l’isolamento, le intemperie svolgano un ruolo determinante in una storia, in cui il ritmo incessante, quasi snervante, di giorni e stagioni copre con un’apparentemente sana regolarità qualcosa che invece cova e si prepara ad esplodere nel corso del racconto.
Il protagonista Ingimundur (Ingvar Eggert Sigurðsson), dopo la tragica morte della moglie in un incidente stradale, provocato proprio da quel biancore di nevischio e ghiaccio, cui fa riferimento il titolo del film, trascorre le sue giornate ad accompagnare la nipotina a scuola, a visitare gli ex colleghi e a restaurare la vecchia casa di famiglia.
Ma anche nei momenti di maggiore serenità, come la gita in barca con la bambina, il regista interrompe l’apparente monotonia della situazione introducendo degli elementi inquietanti, vedi il sangue di salmone che macchia l’abito della ragazzina e la violenza con cui questa uccide il pesce sbattendogli la testa sul tavolo.


La violenza è dunque inizialmente tenuta sotto traccia, salvo affiorare attraverso piccoli segnali connessi all’incidente e a malcelati sospetti sulla moglie defunta. Quello che Palmason infatti vuole mostrare è il percorso di elaborazione del lutto da parte del protagonista, attraverso le sue fasi canoniche, dal dolore, alla negazione, alla rabbia, all’accettazione, soffermandosi in particolare sul suo accanimento per un’impossibile conoscenza dell’altro, che non può che sfociare in sofferenza e smarrimento identitario. Il modo però in cui sviluppa il tema non aggiunge nulla a cliché già ampiamente visti e la sua prevedibilità non contribuisce certo a creare la tensione voluta.
A White, White Day racconta infatti prevalentemente la lunga attesa preparatoria dell’esplosione di violenza del vedovo tradito, peccato però che l’interpretazione trattenuta di Sigurðsson, seppur funzionale alla ritrosia del racconto, non sia però tale da creare alcuna empatia col personaggio, al quale si contrappone la fin troppo simpatica biondissima nipotina, per cui, quando finalmente si arriva al punto, la messinscena rivela tutti i suoi limiti, sfiorando il ridicolo. In aggiunta Palmason non fa nulla per non rientrare nella categoria del “tipico film islandese”: lunghe inquadrature sul paesaggio, personaggi reticenti, un’inattesa apparizione di cavalli, qualche tentativo di humour…


Nel complesso il film sembra ripercorrere strade già ampiamente e meglio battute, senza aggiungere nulla di innovativo, se non l’ambientazione nelle desolate lande nordiche e dunque del tutto sorprendente e inaspettato è parso il giudizio della Giuria, che gli ha attribuito il premio come miglior film.

 Cristina Mengolli MCmagazine 53

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