El hoyo – Il buco

Galder Gaztelu-Urrutia

Un uomo decide volontariamente, per smettere di fumare, di farsi rinchiudere in una prigione verticale, fatta di piani che possono contenere solo due prigionieri ciascuno, attraverso i quali, una volta al giorno, scende una piattaforma zeppa di cibo preparato da chef gourmet. Più si sta in alto più ci si abbuffa, mentre più si scende meno cibo resta e nulla arriva ai piani più bassi. Ogni mese i detenuti vengono arbitrariamente spostati da un piano all’altro e devono misurarsi con le loro capacità di resistenza e il loro istinto di sopravvivenza.

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The Platform
Spagna 2019 (94′)
TORINO 37° – premio Scuola Holden (miglior sceneggiatura)

 TORINO – Una narrazione che, abbandonando la tradizionale orizzontalità, si sviluppa in verticale crea una situazione distopica, in cui lo spazio diventa il protagonista, il motore dell’azione.


Nel bellissimo racconto di Dino Buzzati “Un caso clinico” un uomo, che viene ricoverato all’ultimo piano di un ospedale per un malore di scarso rilievo, si ritrova inspiegabilmente ad essere trasportato via via in piani sempre più bassi fino all’ultimo, dove incontra la morte. La verticalità della narrazione diventa in questo caso, metafora di una condizione di vita fatta di angosce e di malesseri crescenti, che portano inevitabilmente alla fine. Una connotazione più sociologico-politica si ritrova invece ne “Il condominio” di Ballard, dove la lotta per conquistare i piani alti del grattacielo, dove vivono i privilegiati, unici ad avere possibilità di sopravvivenza, si risolve in un gioco al massacro.
El hoyo, opera prima del regista basco Gaztelu-Urrutia introduce una variante a questo schema, in quanto qui il movimento è bidirezionale sia nello spazio fisico che in quello interiore e le due direttrici naturali della salita o della discesa si alternano, mettendo a dura prova il protagonista (il bravo Ivan Massagué), un uomo apparentemente mite, entrato volontariamente per smettere di fumare, portando con sé unicamente un libro, il Don Chisciotte, che diventa via via un personaggio sempre più complesso e tormentato, un idealista trascinato in un girone infernale, dove viene privato di cibo, di sicurezza, di dignità.

Nel passare da una cella all’altra o meglio da un piano all’altro, man mano che la metafora si fa più esplicita, i temi, gli interrogativi si accumulano: quali sono i limiti dell’uomo nella lotta per la sopravvivenza? Possono le azioni dei singoli incidere su una società malata, egoista e divorante (la metafora del cibo non può non far pensare a Bunuel), in cui l’assenza di un’equa distribuzione della ricchezza sembra poter portare solamente al caos, all’autodistruzione, alla disperazione? L’umanità del personaggio, o meglio la sua idea di umanità si spezza ripetutamente, per poi trovare qualcosa a cui aggrapparsi in un ciclo, che è il motore della tensione del film.
Il regista distribuisce all’interno di questo complesso meccanismo narrativo, grazie anche alla compatta sceneggiatura di David Desola e Pedro Rivero, azione, orrore, sangue, violenza, costruendo un incubo claustrofobico che, fin dai primi fotogrammi, trasmette disagio e angoscia, senza tuttavia rinunciare né alla suspence né all’ironia.


Acclamata ai festival di Toronto (Canada), Austin (Stati Uniti) e Sitges (Spagna), dove ha ottenuto quattro importanti premi (miglior film, regista rivelazione, migliori effetti speciali e premio del pubblico) quest’opera prima del regista di Bilbao Galder Gaztelu-Urrutia si è rivelata come una delle più stimolanti visioni del concorso Torino FF 2019, ottenendo consensi unanimi da critici e pubblico, ma sorprendentemente è stata totalmente ignorata dalla Giuria, che in un festival che si propone di valorizzare le opere più innovative, ha preferito fare delle scelte molto più conformistiche.

 Cristina Mengolli MCmagazine 53

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