Blanco en blanco


White on White
Spagna/Cile/Francia/Germania 2019 (100′)
VE 76° – Sezione Orizzonti: miglior regia

 VENEZIA – Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto”, scriveva Kandinsky.In arte il bianco è la somma di tutti i colori, quelli dello spettro luminoso, ma è anche un non colore, il luogo dell’assenza e dell’astrazione, mentre in ambito fotografico è il mezzo fondamentale per bilanciare le luci e i colori della scena che stiamo osservando, facendosi quindi strumento privilegiato di interpetazione del reale. Era, del resto, anche ciò che suggeriva Malevic nel suo Quadrato bianco su fondo bianco, ed è quello che immediatamente evoca il titolo del nuovo film di Theo Court, bellissimo omaggio a un luogo e alla sua memoria dimenticata..


   Blanco en blanco si struttura partendo da due fotografie d’epoca in 4:3 – il ritratto di una sposa bambina illuminata dalla luce che proviene da una finestra e, nel finale, il dagherrotipo di un gruppo di conquistadores e le vittime della loro caccia – e lo scarto tra le ragioni che hanno dato vita a quelle immagini e ciò che ci restituiscono oggi.
Il film è ambientato nel Cile di inizio ‘900, nella Terra del Fuoco dove il fotografo Pedro (Alfredo Castro) viene chiamamto da un ricco proprietario terriero a ritrarre la sua futura moglie, ancora bambina, alla vigilia del matrimonio. La magione è cupa e inospitale, illuminata soltanto dall’innocenza della piccola Sara verso cui Pedro rivolgerà sempre più attenzioni. Fuori, il paesaggio selvaggio e innevato del Cile antartico fa da teatro al genocidio dei nativi Selk’nam; e metre il latifondista Mister Porter contimua a rimandare la propria visita, anche la partenza del fotografo si rivelerà sempre più un miraggio. costringendolo a prendere parte alle battute di caccia contro gli indigeni per immortalare le barbariche imprese dei coloni.


Appare oggi esserci ben poco di evocativo nella mitologia di quella crudeltà, nella celebrazione di una sanguinosa conquista, ma tale sguardo si rivelerà anche l’unica idea di salvezza per Pedro, mentre irreversibilemnte si trasformerà, attraverso l’idealizzandone di quell’iconografia, da testimone a complice dell’orrore.
Nel racconto di questa discesa morale, al protagonista non resta che confondere la propria umanità col paesaggio sconfinato, volgere lo sguardo altrove, verso il bianco che si fa quindi luogo salvifico animato dal candore di un abito nuziale, dalla purezza della neve, da una nebbia lattiginosa che confonda dalla brutalità dei massacri. Nella sua inerte ricerca di una messa in scena che ne trasformi le fattezza mostruose, la negazione e la passività in cui il protagonista si rintana lasciano solo un apparente spazio al desiderio, e quindi alla sua umanità – di una partenza che lo porti finalmente lontano da quei luoghi e dell’amore morboso per Sara, o ancora della luce perfetta prima di uno scatto – ma è un anelito che non troverà mai soddisfazione perchè sempre colpevole, malato, e cieco quanto le violenze che si stanno compiendo in quel confine vergine, privo di regole e integrità.

In questo senso, nel film (presentato nella sezione Orizzonti e vincitore del Premio per la migliore regia) il bianco rappresenta da un lato la fuga, intima e personale, di un uomo dalle proprie responsabilità, attraverso l’arte e l’oblio dei sensi. Ma assorbito dalla passività del personaggio, l’orrore, inevitabilmente, viene lasciato alla memoria che solo i suoi ritratti scolpiranno. La storia di un’identità che solo la macchina fotografica avrà il dovere e la capacità di registare e restituire, facendosi al contempo testimone e giudice delle colpe di un’intera nazione: ribilanciando il bianco con le ombre del reale. Una verità che è solo illusoriamente separata dagli occhi e dalla coscienza, da ciò che per troppo tempo l’uomo si è rifiutatato di vedere e ammettere. Dall’altro lato dunque, il bianco di un rimosso e di un silenzio assordanti.

Valentina Torresan – MCmagazine 52

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