La terra dell’abbastanza

Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo

Storia di Mirko e Manolo, due giovani amici della periferia romana. Bravi ragazzi fino al momento in cui, guidando a tarda notte, investono un uomo e decidono di scappare. La tragedia si trasforma in un apparente colpo di fortuna: l’uomo che hanno ucciso è il pentito di un clan criminale di zona e facendolo fuori i due ragazzi si sono guadagnati un ruolo, il rispetto ed il denaro che non hanno mai avuto. Un biglietto d’entrata per l’inferno che scambiano per un lasciapassare verso il paradiso. Un esordio convincente, In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza e l’assuefazione al male la regola ecco un racconto esemplare, che sa affrancarsi dalla lettura epica (e televisiva) del crimine.

 

 

 

Italia 2018 – 1h 36′ 

Non è la prima volta che il giovane cinema italiano (quello degli esordienti o quasi) racconta le periferie e chi vive ai margini, ma poco volte lo ha fatto con la giustezza e il rigore — morale e cinematografico insieme — di La terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo, gemelli ventottenni alla loro opera prima. Perché quello che colpisce del loro film non è certo l’originalità della storia — due ragazzi di periferia si fanno tentare dai soldi facili che può offrire la malavita — quanto la sensibilità con cui raccontano il loro progressivo perdersi dietro un’ingannevole tentazione di benessere, la verità con cui sono descritti i due protagonisti e soprattutto la padronanza di un linguaggio cinematografico che non ha paura di essere diretto ed efficace senza dover ricorrere a inutili esibizioni di stile.
Ambientato nel quartiere di Ponte di Nona, alla periferia Est di Roma, il film inizia subito con un originale spunto di sceneggiatura: due giovani, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano), forse nemmeno diciottenni anche se girano in auto, investono di notte senza accorgersi una persona e la lasciano morta per strada, impauriti. Il padre del secondo (Max Tortora) si ingegna per cancellare le loro responsabilità (non dovrebbe averli visti nessuno) ma quando scopre che l’investito era un «infame» che si nascondeva perché collaborava con la polizia, allora convince il figlio a vantarsi dell’incidente, come se lo avesse fatto di proposito, per ingraziarsi la banda che lo stava cercando. Per il genitore quell’incidente diventa un «colpo di culo», quello che può far entrare Manolo nella manovalanza del crimine e garantirgli così un po’ di soldi. Mirko lo intuisce dai regali che l’amico fa alla sua ragazza e impiega poco a farsi coinvolgere anche lui in un giro di affari illeciti ma redditizi.
Poteva essere lo spunto per raccontare l’inizio di un viaggio nella criminalità sempre più cupo e sanguinoso (come abbiamo visto tante volte, anche nel cinema americano) e invece i due fratelli D’Innocenzo sembrano preoccupati di togliere ogni possibile mitizzazione ai loro due personaggi. La prima prova del fuoco (uccidere un marocchino) è di uno squallore assoluto, filmata senza enfasi o tensione ma con lo stesso grigiore quotidiano con cui Mirko riempie la tavola di casa con tutto quello che ha potuto comprare al supermercato coi suoi primi soldi. Una inutile ostentazione di «abbondanza» che deve giustificare alla madre (Milena Mancini) con una evidente bugia e che però ci fa capire meglio di mille discorsi il modo di vivere e di ragionare di chi è condannato a campare nella «terra dell’abbastanza» (come dice il titolo) e si trova all’improvviso a fare i conti con una «ricchezza» di cui quasi non sa che fare. Perché un altro dei meriti del film, che i due fratelli hanno scritto quando avevano 22 anni impiegando i successivi sei per trovare chi glielo producesse (la Pepito Produzioni e Rai Cinema), è proprio la giustezza dei dialoghi, la capacità di non voler spiegare ma di lasciare alle immagini (e alla recitazione) il compito di raccontare e mostrare. Nasce da qui l’efficacia del loro cinema, capace di aprire la storia a un più ampio sguardo sociologico e antropologico, su un mondo che sembra solo capace di passare dalla rabbia alla rassegnazione, dall’invidia per chi ha di più (e verso cui si può provare solo risentimento) a un’accettazione dell’esistente che sa di rinuncia e di sconfitta. Un’alternativa che tale non è e che però inchioda le persone alla loro condizione, da cui forse usciranno solamente quando non riusciranno più a sopportarne le conseguenze.
Nel film qualcuno cercherà quella via d’uscita e qualcuno no, però nei modi sorprendenti e non scontati di un film che sembra inseguire le regole dei generi (un noir metropolitano sporco e slabbrato) e invece trova l’ambizione del film d’autore, senza i vezzi di un facile esercizio di stile ma con la concretezza e l’efficacia di un linguaggio classico, compatto, capace di arrivare dritto al cuore dello spettatore. Capace di coniugare l’efficacia con l’intelligenza.

Paolo Mereghetti Corriere della sera

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