Hopper / Welles

Orson Welles



USA 2020 (130′)

 VENEZIA – Ci sono momenti nel corso di un festival in cui l’accreditato, grazie a dei privilegi che pochi altri possono permettersi, si sente gratificato per le fatiche, seppur piacevoli, a cui deve sottoporsi per seguire le varie visioni. Nella scorsa edizione la performance di Tsai Ming-liang, quest’anno l’intervista a Dennis Hopper da parte di Orson Welles, ancora inedita a cinquant’anni dalla sua realizzazione, sono regali che compensano ogni disagio.


    Il regista polacco Filip Jan Rymsza, presente anche nella sezione Fuori Concorso con un suo (discutibile!) film Mosquito State, ha portato al Festival in veste di produttore quest’opera incompiuta di Welles, dopo aver curato due anni fa il restauro per Netflix dell’altro film incompiuto The Other Side of the Wind, proiettato appunto a Venezia.
Girato nella casa di Hopper in Benedict Canyon, Los Angeles, è una lunga intervista che Welles, mai in campo, ma presente solo in quanto voce, realizza a Hopper, su cui al contrario due cineprese sono sempre puntate, per riprenderlo in primo piano o in mezza figura con un movimento rotatorio interrotto soltanto dai ciak dell’assistente alla regia.
Siamo nel novembre del 1970, Welles è nel pieno delle riprese di The Other Side of the Wind, il film che lo ossessionerà per tutta l’ultima parte della sua vita e che non riuscirà mai a completare né a distribuire. Sta raccogliendo materiale per il suo film che è una sorta di docu-fiction sulla Hollywood di fine anni ’60 e decide di intervistare l’attore e regista di Easy Rider, che con la sua prima opera nel 1969 ha rivoluzionato linguaggio e industria del cinema americano allo stesso modo o quasi del Welles del 1941 con Citizen Kane. Anche Hopper è nel pieno delle riprese di un altro progetto produttivamente folle e interminabile: The Last Movie, che è un “film nel film”, proprio come The Other Side of the Wind.
La conversazione parte da lì: seguono 130 minuti di riflessioni teoriche, aneddoti, confessioni, gin tonic. Due personaggi, un volto, pellicola in bianco e nero. Si parla di tutto: cinema (“Ho visto La Notte di Antonioni sette volte e mi sono sempre addormentato” ), religione, sesso, istruzione, politica, di Roosevelt, del maccartismo, della paranoia dei complotti politici e delle rivolte delle nuove generazioni (“i giovani non mi hanno mai interessato, ma ora cominciano a piacermi perché sono violenti” afferma Orson).


Welles incalza Hopper, a volte sembra volerlo mettere in imbarazzo, soprattutto quando si parla di politica e di fronte all’ingenuità di Hopper, che si dichiara roosveltiano, quindi “di sinistra” e teme di essere spiato dalla CIA, non esita ad esprimere le sue simpatie per i regimi autoritari (la Spagna di Franco ad esempio), avallando la viperina descrizione del personaggio, che ne fa James Ellroy nel suo ultimo splendido romanzo Questa Tempesta.
Ma soprattutto il suo tono si fa quasi inquisitorio quando vuole scavare a fondo nella poetica del giovane regista e sembra voler assorbire e nel contempo scardinare le sue convinzioni e con lui il mondo della New Hollywood. Hopper crede che i film possano fare la rivoluzione. Welles dice che sono le persone organizzate a cambiare il mondo. “Credi davvero di fare la rivoluzione attraverso i film?”, “Io voglio semplicemente fare film personali” risponde Hopper. “Cos’è un film personale?”
It’s all true?
Alcune osservazioni sulla messa in scena si rendono necessarie.
La presenza (come voce) / assenza (come corpo) di Welles lo colloca contemporaneamente dietro la macchina da presa in un ipotetico fuori campo, ma anche al di qua dello schermo, dove siamo noi spettatori, che, con il procedere della conversazione, ci sentiamo sempre più parte di quel mondo e ritorniamo con la mente a certe fumose serate di anni addietro, in cui ci si accalorava a parlare ininterrottamente di cinema. Hopper d’altro lato si rivolge a Orson chiamandolo Jake, perché in verità sta parlando ad Hannaford, il protagonista di The Other Side of the Wind interpretato da John Huston.


La conversazione diventa allora rappresentazione, “messa in scena” di una dialettica: Hopper mette in scena il se stesso che sarebbe diventato negli anni a venire, mentre Welles prova a spiegare a se stesso (e a Hopper e a noi) il film che avrebbe voluto fare. Due generazioni, due mondi, due diverse concezioni di cinema, la vecchia e la nuova Hollywood, si confrontano. Quasi un rovesciamento di Io, Orson Welles, il libro intervista di un giovane regista Peter Bogdanovich a un vecchio maestro.
The Other Side of the Wind non vedrà mai la luce, se non molti anni dopo la morte del suo autore, Fuga da Hollywood segnerà la fine prematura di Hopper come regista.
Hopper / Welles è così, oltre che una grande lezione di cinema, un testamento di rara bellezza, che però non vive nel passato, perchè parla al presente.

Cristina Menegolli MCmagazine 60

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