Chicago, 1968. Un gruppo di sette persone esponenti della controcultura giovanile di sinistra interrompono la 35esima convention nazionale democratica di Chicago; cinque mesi dopo ha inizio un processo grottesco contro quelli che verranno trattati come dei veri e propri capri espiatori, ma che finiranno per diventare simbolo di protesta e ribellione.
Il film di Sorkin, grazie ad una sceneggiatura ricca di intelligenza ed ironia, diventa un racconto brillante e appassionato, capace di alleggerire sullo schermo una storia di profonda ingiustizia e manipolazioni.
The Trial of the Chicago 7
USA 2020 (129′)
versione originale sottotitolata
Rennie Davis e Tom Hayden, leader degli Studenti per una Società Democratica; Jerry Rubin ed Abbie Hoffman, leader del Partito Internazionale della Gioventù; David Dellinger, leader del movimento per porre fine alla guerra in Vietnam; Lee Weiner, John Froines: sono questi i nomi dei sette “studentelli” della sinistra radicale, in abiti diversi, come verranno definiti in quello che sarà uno dei processi più “politici” della storia americana. A questo gruppo si affianca anche Bobby Seale, presidente nazionale delle Pantere Nere, “messo lì solo per fare paura” (perché di colore), il quale però, dopo una serie di ingiustizie e vessazioni viene escluso, e il suo processo separato da quello in corso. Il processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) racconta una pagina triste di storia americana dove si fronteggiano due fazioni: i pacifisti che manifestano contro la guerra in Vietnam, e le forze armate impiegate da Johnson prima, e da Nixon poi, per dissuadere con maniere forti le proteste che si susseguivano.
Ed è proprio in quell’agosto del 1968 che un gruppo di manifestanti, visibilmente esasperati, viola il coprifuoco attorno all’International Amphitheatre dove si stava tenendo, appunto, la convention democratica. Inizierà così un processo già scritto, presieduto dal giudice Hoffman (ironica omonimia con uno degli imputati), fatto di intere testimonianze cancellate, inutili obiezioni, una giuria manipolata, oltraggi alla corte come se piovesse, capi d’accusa forzati e imposti dall’alto: «E secondo lei io voglio una messa in stato di accusa per violazione di una legge sullo sconfinamento? Ovviamente no […], cospirazione per violare i confini statali per incitare alla violenza, pena massima 10 anni». E il giudice Hoffman (uno strepitoso Frank Langella) li vuole tutti questi 10 anni per questi sette studentelli impertinenti con la voglia di ribaltare il sistema; poco importa se «ci sarà chi penserà che questo dipartimento di giustizia limiti la libertà di parola e chi vedrà questi uomini come dei martiri», come cerca di farlo ragionare il giovanissimo viceprocuratore Richard Schulz (un Joseph Gordon Levitt che continua a confermare il suo talento).
Il processo ai Chicago 7 diventa un circo mediatico, un palcoscenico con tanto di pubblico: «Tutto il mondo ci guarda» è lo slogan scandito più volte nel corso del film, quasi come a ricordare il suo impatto sociale e la grande risonanza. Filmati reali in bianco e nero si alternano alle scene del film, mostrandoci fotogrammi di proteste, rivolte, finite nel sangue, in un susseguirsi incalzante che è il cuore dell’intera pellicola, mai lenta, mai stagnante. Aaron Sorkin scrive una sceneggiatura brillante, focalizzandosi sul vero protagonista del film: le idee. «Abbiamo portato certe idee oltre i confini dello Stato», «Non sono mai stato sotto processo per i miei pensieri prima», «Noi non andiamo in galera per quello che abbiamo fatto, noi andiamo in galera per quello che siamo»: sono soltanto alcune delle battute chiave di Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen, da Oscar), di certo il più irriverente e ribelle del gruppo, che alla domanda su “quale fosse il prezzo per annullare la rivoluzione” risponde: «la mia vita» (e non potevamo aspettarci un’affermazione diversa).
Ma non è tutto oro quello che luccica: anche all’interno del gruppo, infatti, ci sono continui scontri, diverbi, liti, e Sorkin ce li mostra tutti, nella loro ingenua umanità; in particolare quelli tra Hayden (Eddie Redmayne) e Hoffman stesso, così diversi nell’approccio alla politica, alle istituzioni, e alla rivoluzione stessa, eppure, in fondo, così simili. Forse l’unica nota stonata della pellicola può essere quella di utilizzare, a volte, un linguaggio a tratti comico per temi che comici non sono affatto, ma è un’ironia pensata e intelligente – e per questo assolutamente perdonabile – che alleggerisce una storia di profonda ingiustizia e manipolazioni. Un cast stellare per raccontare una pagina vera di protesta e ribellione, un inno alla forza degli uomini, ma soprattutto delle idee.
Silvia Scalisi – ecointernazionale.com