Madre

Bong Joon-ho

Una donna vive sola con l’unico figlio, un giovane timido e asociale che trascorre il tempo chiuso in casa. Quando nella loro città viene commesso un omicidio, la polizia arresta il figlio della donna solamente perché è privo di alibi. L’avvocato della difesa non è in grado di provarne l’innocenza così toccherà alla madre indagare per contro proprio per scagionare l’amato figlio, scoprendo, tra le sue abituali frequentazioni, un mondo nascosto di intrighi e violenze… Un film che scardina convenzioni e regole per reinventare la realtà nello sguardo e nelle azioni di una donna che soffre si dispera, immersa cuore profondo (e selvaggio) della società coreana. Un ritratto di madre straziante, commosso e ambiguo.

Madeo
Corea del Sud 2009 (128′)

 – Una donna avanza solitaria in un campo di grano. Si guarda attorno, come turbata, poi comincia a danzare al ritmo di una musica che le si insinua nella mente e che la magia del cinema le consente di condividere con noi. La ritroveremo, dopo oltre due ore di racconto, a danzare con grazia sbilenca su un autobus assieme ad altri viaggiatori, ma, sebbene stavolta la musica sia reale, la malinconica fissità di uno sguardo al limite della monomania ci farà temere che quel ballo inquieto possa d’un tratto tramutarsi in una sconnessa danza sul precipizio della follia..

 Una donna avanza solitaria in un campo di grano. Si guarda attorno, come turbata, poi comincia a danzare al ritmo di una musica che le si insinua nella mente e che la magia del cinema le consente di condividere con noi. La ritroveremo, dopo oltre due ore di racconto, a danzare con grazia sbilenca su un autobus assieme ad altri viaggiatori, ma, sebbene stavolta la musica sia reale, la malinconica fissità di uno sguardo al limite della monomania ci farà temere che quel ballo inquieto possa d’un tratto tramutarsi in una sconnessa danza sul precipizio della follia.
Nel capolavoro di Jia Zhang-ke Al di là delle montagne (2015) il testo filmico si sviluppa secondo un’articolazione analoga, sebbene a parti invertite: aperto su un ballo di gruppo in occasione del capodanno cinese, il film si chiude venticinque anni dopo sul ricordo delle note di Go West dei Pet Shop Boys che risuonano nella mente di Zhao Tao, ormai sola, senza affetti, spettro di un mondo venuto meno, cui non resta che rievocare le fantasie della giovinezza danzando solitaria in un paesaggio innevato. Se le piroette da lei accennate in quel sublime finale risultano indotte dal desiderio di aggrapparsi alla memoria, la protagonista di Mother sembra danzare in un anelito di smemoratezza, come inseguisse, sulla scia di quel dimenarsi insensato, la speranza di annullare se stessa e, insieme, ogni ricordo. È, il suo, un gesto niente affatto rassicurante, che, anzi, ci inquieta e disegna sin dal principio i contorni di una figura sfuggente, priva di nome, dalle ambizioni frustrate e asservita al vincolo parentale come unico strumento di autodeterminazione. Quando il figlio, ragazzo ottuso e non autosufficiente, viene accusato dell’omicidio di una giovane, lei non crede alla sua colpevolezza e si impegna in una indagine privata per scoprire la verità.
Col procedere dell’investigazione emerge, a piccoli passi, la vera natura di un film, che, come il precedente Memories of Murder(2003), scardina i generi di appartenenza, insidiandone a più riprese i codici di riferimento, sino a svelare il malessere esistenziale che si cela oltre il perbenismo e la presunta efficienza di una macchina pubblica incapace di ovviare agli squilibri di una società rigorosamente classista. In ciò non si può riconoscere un preciso genere di appartenenza per questo film alieno e sempre pronto a rimodellarsi sotto i nostri occhi: lo si potrebbe dire un thriller, se non fosse per i ritmi troppo dilatati; un poliziesco, se la detection non si risolvesse in un cumulo di piste farraginose; un melodramma familiare, se non fosse per l’ambiguità di una relazione genitoriale di cui ci sembra di non afferrare mai lo specifico; una satira allucinata della società coreana, se il ricorso a momenti slapstick fosse sufficiente a mascherare l’orrore che le immagini di Bong ci insinuano sottopelle. Nell’equilibrio impraticabile dei generi, quel che rimane è l’ineludibile registro del grottesco, che – seppure troppo spesso comodamente associato al cinema coreano per lenire l’imbarazzo di una categorizzazione inefficiente – si impone, nel cinema di Bong, come strumento prediletto per filtrare il racconto attraverso una lente deformante, in grado di rivelare ciò che altrimenti sarebbe impossibile mettere in scena.

Matteo Pernini – mcmagazine 54

altre voci…

Ecco, allora, che acquista un significato sinistro la scena d’apertura: la donna, immersa in un campo di grano oro fiammeggiante, danza in primo piano davanti alla macchina da presa, imprimendo un segno circolare a questa storia, che si ripete e ha a che fare con la memoria e l’oblio. Dimenticare, ricostruire il passato e poi dimenticare di nuovo. Madre terribile e dolce, Hye-ja ci ricorda la Sally Field di Forrest Gump, ma con un’aura di mistero e di ferocia che contraddistingue la poetica di Bong, portando alle estreme conseguenze la sua analisi del rapporto tra una madre e un figlio “il fondamento di tutte le relazioni umane” – spiega il regista – “che ho voluto esplorare per vedere dove potevo intervenire e come potevo renderlo esasperato”.

Grazia Paganelli – quinlan.it

  Un altro film coeso, stratificato e psicologicamente denso per Bong Joon-ho, che ha già dimostrato di possedere la vocazione del cineasta puro, capace di spaziare dal blockbuster catastrofico (The Host del 2006) al cinema di genere (Memories of Murder del 2003) mantenendo intatti la qualità del suo sguardo e il grado di spessore della propria messa in scena. Uno straziante, commosso e ambiguo ritratto di madre, che riflette sui condizionamenti dovuti ai legami affettivi, ma anche sulle possibilità infinite e sui gesti impensabili che un amore spropositato come quello materno può generare. Nel film di Bong, degno di una tragedia euripidea, albergano vendetta, sangue, esplosioni di violenza, bruciature e lampi improvvisi, che vanno a contrappuntare una narrazione spesso piana e dimessa, ma anche momenti all’insegna della pura costruzione poetica, come l’inizio e la parte finale, che si rispecchiano l’uno nell’altro generando una vera e propria struttura ad anello. La ricostruzione di un omicidio, in questo caso come nel precedente, altrettanto riuscito Memories of Murder, fa da cassa di risonanza per parlare di temi più grandi e più ingombranti rispetto al semplice pretesto di partenza, dall’amore filiale al confine etico tra giusto e sbagliato passando per la controversa ricezione della diversità nel mondo di oggi. Ma Madre si spinge anche più in là del precedente lungometraggio di Bong e riesce a commuovere e ad abbagliare con la purezza e la limpidezza che spetta ai capolavori. Quello del regista coreano è anche, in misura non secondaria, un film sulla sofferenza dello sguardo, in cui l’atto di spiare bilancia sempre al suo interno, in egual misura, proibizione, sottomissione e dolore.

Longtake

  …Una straziante tragedia di gente comune, incentrata sull’interpretazione di un’incredibile Kim Hye-ja. questo film che scardina la convenzione e capovolge le regole: tutto è coim Hye-ja. La Madre – il personaggio non ha un nome – un’anti-Medea disposta a tutto pur di salvare il buon nome del figlio, si appropria del film per farci vivere dal suo punto di vista l’amarezza del destino, l’inevitabilità della disgrazia, la disuguaglianza di persone e cose; figura apotropaica che toglie la vita, passando le giornate a tagliare i rami secchi, ma sa anche donarla, attraverso le arti segrete dell’agopuntura. Come e più del solito in Bong il Bene non abita più qui e risulta pressoché impossibile parteggiare o immedesimarsi con uno qualsiasi dei personaggi, caratterizzati da diversi gradi di meschinità e dalla difesa di uno spesso sordido particolare. Do-joon non è migliore di loro (e Bong non fa nulla per farcelo credere), è solo speciale, diverso da loro, quel tanto che basta a renderlo fuoriposto, (con)segnato sin dalla nascita a un destino di simbiosi madre-figlio, nella buona e nella cattiva sorte. (…) Il percorso di consapevolezza dell’anziana protagonista è il percorso di uno spettatore disorientato dalla maestria di Bong nel manovrare gli strumenti della narrazione: il tema edipico è appena sfiorato, il whodunit segue il suo corso (costellato di MacGuffin), mentre si dipana la vera indagine, quella nell’uso atroce del sesso e degli istinti primari che tuttora perdura nel cuore profondo (e selvaggio) della società coreana.

Emanuele Sacchi – mymovies.it

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