Maria e l’amore

Lauriane Escaffre, Yvo Muller

Maria, sposata da 25 anni, lavora per una ditta di pulizie, ma il suo animo dolce e sensibile la porta a scrivere poesie, pur tenendo nascosta questa passione. Quando viene assegnata alla Scuola di Belle Arti a Parigi, conosce Hubert, il custode, che condivide le sue passioni. Il legame tra i due diventa sempre più forte e Maria riscopre non solo sé stessa, ma anche emozioni che non provava da tempo. Riuscirà a lasciarsi andare e godersi finalmente la vita e l’amore?

Maria rêve
Francia 2022 (93′)

C’è ancora spazio nella nostra vita per le favole tenere e gentili, senza supereroi o supereroine e magari senza lacrime o spargimenti di sangue? Siamo ancora disposti a lasciarci andare a un sogno che vuole dimenticare le brutture del mondo e per lo spazio di un’ora e mezza ci parla sottovoce e cerca solo dolcezza e romanticherie? A crederlo sono una coppia di giovani francesi, Lauriane Escaffre e Yvo Muller, già premiati con un César (il David francese) per il corto Pile poil, oggi esordienti nel lungometraggio con «Maria e l’amore» (che l’originale Maria rêve, ossia Maria sogna, sottolinea di più la loro scelta di campo). La protagonista Maria, interpretata da una convincente Karin Viard, è una donna che si guadagna la vita facendo le pulizie e che, dopo la morte dell’anziana signora da cui lavorava, viene assunta all’Accademia di Belle Arti con le medesime funzioni. A casa lascia ogni giorno un marito in crisi esistenziale (Philippe Uchan), che cerca di dimenticare la disoccupazione stordendosi col fado (è di origini portoghesi) ed è incapace di perdonare la figlia che è «fuggita» con il suo miglior amico. Inevitabile che Maria finisca per farsi conquistare dal mondo variopinto che trova all’Accademia, fatto di studentesse alla ricerca di (strampalate) strade verso l’arte, di colleghe con i loro problemi quotidiani, di piccoli o grandi segreti (la segretaria che si nasconde per concedersi al professore, interpretati dai due registi) e soprattutto da Hubert (Grégory Gadebois), il custode con la passione per il ballo che conosce tutti i segreti del palazzo che ospita l’Accademia.

Ho detto che è una «favola gentile» e quindi non ci si deve aspettare chissà che colpi di scena. E vista l’istintiva simpatia di Hubert, non ci vuole molto a capire che tra lui e Maria si accenderà qualcosa. Caso mai il dubbio riguarda gli sviluppi di quella inevitabile scintilla, perché la fedeltà è consustanziale al carattere riservato e schivo della donna, nella cui «remissività» professionale ed esistenziale il film (sceneggiato dai due registi) trova la sua vera ragion d’essere. Lo spiega perfettamente Maria quando le chiedono se le piace il lavoro che fa: «Fare le pulizie non è un lavoro che si sceglie […] ma ha una sua dignità. Forse la gente non se ne accorge ma rendiamo gli ambienti più confortevoli… poi vediamo tutto, siamo ovunque, ma non diciamo mai niente», per concludere con «E questo mi piace». Ecco, la cosa migliore del film è proprio il ritratto di questa felicità senza desideri, di questa arrendevolezza senza rimpianti che Maria scambia come il proprio «destino manifesto»: non ha mai neppure immaginato di poter fare altre cose, di poter aspirare a un’altra vita, almeno fino al giorno in cui l’atmosfera gentilmente trasgressiva dell’Accademia le apre gli occhi su un’altra possibile vita. Per esempio accorgendosi del fascino e della bellezza di un corpo eternamente infagottato sotto grembiuli e giubbotti.

E il percorso che porta Maria ad accettare di fare la modella di nudo per gli studenti non è solo l’occasione per regalare al timido Hubert la possibilità di vederla come mai avrebbe immaginato, ma si rivela un passo importante lungo il percorso che la spingerà a prendere coscienza della propria femminilità e ad accettare la propria salutare voglia di esibizionismo (per altro contagiosa, come si scoprirà nel film). Primo, fondamentale passo verso quella accettazione di sé e dei propri desideri che ci riporta alla favola gentile di cui sopra…

Paolo Mereghetti – corriere.it

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