Armageddon Time – Il Tempo dell’Apocalisse

James Gray

New York, 1980. Ambizioni, illusioni e frustrazioni di Paul, adolescente di buona famiglia che è costretto a confrontarsi con le difficoltà e le contraddizioni che la vita gli sottopone. L’amicizia con Johnny, coetaneo afroamericano, è messa a dura prova dall’ottusità dei pregiudizi razziali, e il suo rapporto con la famiglia è spesso conflittuale. Gli rimangono il conforto dei suoi sogni e l’affettuosa vicinanza del nonno Aaron: saranno proprio le sue parole a dargli il coraggio di far sentire la sua voce per difendere chi viene discriminato.

Brasile/USA 2022 (114′)

Ignorato dagli Oscar (vergogna), snobbato a Cannes (mistero), è in sala il magnifico e autobiografico Armageddon Time, ambientato nel 1980 ma con un occhio al presente. Ed ecco forse perché si è finto di non vederlo. Nel 1980 James Gray (suoi i notevoli Little Odessa, I padroni della notte, Two Lovers) aveva 11 anni, proprio come il Paul Graff che vediamo crescere a Queens circondato da una vasta famiglia di ebrei di origini ucraine, come spiegherà nonno Anthony Hopkins, l’unico capace di capirlo davvero. Il padre (Jeremy Strong) si arrangia ristrutturando case e sogna per lui un futuro migliore. La madre, Anne Hathaway, piccola borghesia colta (insegnanti), vuole crescerlo come si deve in una scuola pubblica, anche se in tv impazza il futuro presidente Reagan e il degrado avanza. Così il piccolo Paul (Banks Repeta, portentoso) cresce libero e selvaggio. Coltiva il suo talento per il disegno. Stringe amicizia con il paria della classe, un afroamericano con la faccia da adulto (Jaylin Webb), mentre lui è ancora un bambino. E si ficca in una serie di guai culminanti in un colpo che cita “I 400 colpi” di Truffaut (Gray è un cineasta classico, la specie più preziosa). Anche se il nodo centrale qui è un altro: fino a che punto si può essere davvero solidali con chi è nato in un mondo diverso? Spostato in un odioso college privato destinato all’élite e finanziato da Trump Sr. (Jessica Chastain fa la figlia, sorella di Donald), Paul vedrà messi a dura prova i suoi sentimenti e il suo istinto di sopravvivenza, seguendo uno schema archetipico quanto infallibile. Ma a fare il valore del film non è la trama, peraltro perfetta. È lo sguardo con cui Gray rievoca il passaggio da un’epoca carica di speranze al suo opposto. È l’amore che trapela da ogni volto, ogni pettinatura, ogni mobile della casa di Paul. È la pietas riservata anche al padre violento, all’insegnante carogna o al poliziotto amico del padre. Solo i compagni di classe e il direttore del college sono veri nemici, se gli Usa oggi sono divisi da una frattura insanabile, è lì che tutto è iniziato. E Gray ce lo ricorda attraverso lo sguardo di un bambino che ci metterà anni a capire cosa ha vissuto e a diventare il regista che è. Calandosi tutto intero nella rievocazione di un mondo scomparso e ancora vibrante attraverso figure o dettagli minimi e irresistibili. Una gang afro che deride Paul e il suo amico in metropolitana. Quel razzo-giocattolo lanciato col nonno in un giardinetto triste e struggente. Paul in trance davanti al suo primo Kandinskij… L’autobiografia di Spielberg (The Fabelmans) era tutta personale e dentro il mito. Gray salta il mito e abbraccia il mondo. È qui la sua forza.

Fabio Ferzetti – espresso.repubblica.it

 A dispetto del titolo apocalittico – che allude al gran giorno in cui i re malvagi alleati della Bestia si riuniranno per la guerra contro Dio – Armageddon Time è un piccolo romanzo di formazione sul filo dell’autobiografia, ambientato nell’autunno 1980 quando i Clash con Armagedeon Time cantavano ”A lot of people won’t get no justice tonight”; e quando Reagan chiudeva la sua vittoriosa campagna presidenziale prefigurando dietro l’angolo la minaccia dell’Armageddon. Anche se non se ne rende conto, il clima di pregiudizio etnico-sociale si riverbera sulla vita di Paul, alter ego di James, un undicenne di famiglia ebraico-ucraina che vive nel Queens con un papà (il Jeremy Strong di Succession) apparentemente poco affettivo che si occupa di impianti idraulici e una mamma (Anne Hathaway) affettuosa e indulgente. Entrambi spronano il figlio a essere “il migliore”; mentre l’adorato nonno (Anthony Hopkins), sebbene sfuggito all’Olocausto, non manca di ricordargli la tragedia che ha segnato il loro popolo. Quanto a lui, sognatore e dormiglione con un vaghe aspirazioni artistiche, si lega d’amicizia con Johnny, l’unico afroamericano della sua classe e come tale per l’appunto da tutti razzisticamente trattato. Il problema della disuguaglianza emerge con chiarezza quando, dopo aver trafugato insieme un computer dalla scuola, il nero Johnny è arrestato e il bianco Paul la fa franca, ritrovandosi iscritto a un istituto privato il cui mecenate Fred Trump e l’avvocato Maryanne Trump, padre e sorella di Donald, predicano l’etica del successo. Il che stabilisce una sorta di linea diretta fra il rampatismo Usa di ieri e di oggi.

Alessandra Levantesi Kezich – lastampa.it

Dopo l’avventura nello spazio intrapresa con Ad Astra (2019), James Gray, cresciuto nel Queens ma di famiglia ebrea ucraina, ha sentito il desiderio di portare sullo schermo una porzione della propria esperienza personale, tornando nella sua New York. Il film, venato di quella malinconia tipica di un racconto autobiografico che riguarda gli anni dell’adolescenza, è una sentita riflessione sul tramonto di un certo tipo di America, inevitabilmente segnata da una transizione, quella tra gli anni ’70 e ’80, che abbraccia profondi cambiamente culturali, sociali e politici. Ed è l’aspetto politico a essere molto presente nel film, spesso in maniera fin troppo elementare. Nonostante la tendenza alla spensieratezza della prima parte, quando viene restituito con efficacia anche il caos di una New York multietnica dalle molteplici anime, ben presto emerge un affresco schematicamente crepuscolare, che vola alto quando la regia di Gray si libera in tutta la sua fluidità e in tutta la sua elegante ricercatezza, ma trova momenti di stallo nella scrittura quando si rimarca senza troppe idee il concetto di ciclicità del male nella cultura a stelle e strisce. L’odio razziale, il pregiudizio, l’annullamento dell’individuo in nome di un ipocrita disegno di integrazione collettiva, sono spinti verso un discorso politico perlopiù pleonastico, ribadito attraverso immagini TV o da risaputi discorsi che mettono in relazione il tracollo generato dall’epoca reaganiana con quello portato dalla presidenza Trump.

Quando la macchina da presa si muove ad altezza di bambino, le emozioni non mancano, soprattutto nelle sequenze in cui la tenera saggezza del nonno trova terreno fertile nelle speranze del piccolo protagonista. Una fine del mondo vista attraverso i sentimenti, dove l’unico spiraglio di un futuro migliore negli Stati Uniti, un tempo terra dei sogni, risiede nel desiderio di evasione, nel tentativo di rifugiarsi in quello Spazio che torna più volte nel film come unico, utopistico luogo dove liberare l’immaginazione.

longtake.it

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