Hit Man

Yorgos Lanthimos

USA 2023 (113’)

 VENEZIA – Non è infrequente, nella personalissima traiettoria cinefila di ciascuno, che si assista a un film la cui riuscita, anziché darsi come somma delle parti (regia, scrittura, recitazione), muova da una qualità astrattamente cinematografica, un non-so-che che si scopre come effuso nell’interezza dell’opera. Capita, insomma, di incrociare un film che, stante un certo qual giocoso disimpegno in fase progettuale, rivela tali e tanti segni d’ispirazione da rapirci ben al di là di quanto farebbe un prodotto analogo in altre mani.

  È il caso di questa operetta di Richard Linklater, che torna finalmente a Venezia – seppure, per scelta assai maldestra degli organizzatori, fuori concorso – a più di vent’anni dal capolavoro animato in rotoscope Waking Life (2001). Nel film il racconto è articolato senza che vi compaiano snodi particolarmente inventivi; la regia composta e al servizio degli attori, senza guizzi; la scrittura brillante, con qualche eccesso d’arguzia qua e là. Sulla carta, un buon film, ma quel che Linklater vi infonde è una qualità difficile a definirsi, eppure subito riconoscibile, che ha a che fare con il ritmo, lo sguardo, l’allusione, le rime interne, senza identificarsi con nessuna di queste cose. Si prenda l’incipit, con il protagonista intento a svolgere una lezione universitaria su Nietzsche. La parlantina è fluida, ma i concetti espressi sono troppo esili per un docente di filosofia. Similmente la risposta che gli dà un’allieva non manca di facile retorica ed è innegabile che una scena così scritta, nelle mani di chiunque altro, sarebbe stata null’altro che un prologo un po’ inconsistente con l’unico fine di tracciare col pennarello la direzione morale dell’opera. Ebbene, nulla di ciò traspare dalla scena, che anzi ci immette nel ritmo sostenuto di un film in cui la parola ha valore di suono, di strumento ipnotico e persuasivo, di ritmico contrappunto alla visione, più che di significato. Poco importa quel che il docente dice arringando la classe e meno ancora importa che nel suo discorso sul “vivere pericolosamente” si trovino in nuce le coordinate di quel che il plot squadernerà da lì in avanti. Sono, questi, trucchetti maldestri da scuola di scrittura creativa e nulla contano in un film che gioca la sua vera partita interamente sul piano del cinema.


Lasciamo, dunque, l’entusiasta docente alla sua lezione. In breve il film ci spiegherà come egli, nel tempo libero, operi per conto della polizia locale svolgendo lavori di sorveglianza, finché un giorno gli si presenta l’opportunità di impersonare un assassino a pagamento al fine di incastrare chi, a New Orleans, vorrebbe commissionare un omicidio. La recita ha successo e il lavoro procede senza intoppi, finché il mandante non sarà una timida e bellissima ragazza, di cui il protagonista non mancherà d’innamorarsi.
 Partendo da questo canovaccio tratto da una storia vera – e raccontata sul Texas Monthly dal giornalista Skip Hollandsworth nel 2001 – Linklater imbastisce un’opera che trova il suo centro nel liberissimo gioco sui generi. È, forse, questo Hit Man anzitutto un noir, nella misura in cui il protagonista, sedotto da una sensuale femme fatale (una memorabile Adria Arjona Torres), dà l’avvio a una serie di finzioni e macchinazioni che presto gli sfuggono di mano e paiono inesorabilmente destinate alla tragedia. Si tratta, a ben vedere, di un solo lato di quel prisma che è il film, il quale potrebbe essere altrettanto legittimamente letto secondo la lente del poliziesco, della farsa coeniana o della commedia sentimentale. Né ciò è tutto, poiché il regista non manca di esibire il suo gioco cinefilo in apertura, quando in voice over sullo scorrere di frame tratti dalla storia del cinema, apprendiamo come gli assassini a pagamento (hitmen, per l’appunto), o quantomeno l’idea che se ne ha oggidì, siano in realtà un parto dell’immaginario cinematografico, che dalla Hollywood classica fino agli yakuza di Seijun Suzuki non ha mancato di edificarne il mito.

Si legge in giro – probabilmente perché giocato sulla messa in scena di una performance – che il film sarebbe una riflessione sul ruolo dell’attore; che vi si troverebbe un qualche non meglio precisato ragionamento sul rapporto fra tempo (tema prediletto dal regista) e identità; o, ancora, che la doppia personalità del protagonista adombrerebbe un simbolico confronto tra l’Es e l’Ego della psicoanalisi freudiana. Ora, sebbene sia improprio negare che esse vi facciano qua e là capolino, legare l’opera a queste tematiche ci pare, francamente, pretestuoso. Il rischio è quello di leggere il film come un compitino condotto con discreta intelligenza, quando esso è invece il prodotto di una aspirazione puramente cinematografica. È in questo senso che, seppure la sua matrice sia, come detto sopra, quella del noir, non potremmo, se fossimo chiamati a decretarne il genere di appartenenza, tacere di quella che forse è la maggiore tra le influenze che guidano il film: la screwball comedy, ossia quella “commedia svitata” a mezzo tra sophisticated e slapstick, che ha fatto la fortuna del cinema americano degli anni 30 (Susanna! – 1938, forse, il suo apice). Nelle movenze agitate dei protagonisti, nei loro ammicchi, nelle divertenti esagerazioni delle loro recite, nel divertito contrappunto dei comprimari – e così anche e soprattutto nel registro spumeggiante dei dialoghi che mitragliano lo spettatore – si attua il recupero non tanto di uno stile, quanto di un’idea di cinema assoluto, ossia esente da qualsiasi deformazione letteraria, obbligo di coerenza o, peggio ancora, verosimiglianza.


Essenziale a questo scopo il ruolo del cast, la cui composizione merita un plauso al suo direttore. Della bravissima Adria Arjona s’è già detto, ma non può mancare un omaggio al protagonista Glen Powell – qui coautore, come spesso accade nel cinema di Linklater, della sceneggiatura. Di questo intelligente interprete – già scoperto nel capolavoro del 2016 Everybody Wants Some!! – si ammira anzitutto la naturalezza con cui riempie lo schermo, sino a farsi di volta in volta centro della scena senza sforzo apparente. Una chimica che va al di là di qualsivoglia tecnica o sforzo interpretativo e che consiste unicamente nella capacità di essere di fronte alla macchina da presa, sulla scia dell’ineguagliato Cary Grant o, più modestamente, del sornione George Clooney.
 In conclusione, sebbene Hit Man non sia affatto il miglior esito di Linklater, rimane tuttavia una delle esperienze più puramente cinematografiche di questa ottantesima Mostra del Cinema di Venezia e di ciò siamo grati al suo autore. Parafrasando Humphrey Bogart: è il cinema, bellezza!.

Matteo Pernini – MCmagazine 76

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