Agàpe

Velania A. Mesay, Tomi Mellina Bares

Testimonianze di chi emigra verso l’Europa, raccolte nei luoghi di primo approdo, dall’isola di Lesbo a Cipro, tra il 2020 e il 2023. Un documentario asciutto ma pulsante, una tessitura intima di racconti personali di chi crede nell’amore come unica forma di resistenza a cui aggrapparsi tra le sofferenze e i soprusi che accompagnano questi “viaggi della speranza”.

film edito solo in Versione Originale Sottotitolata –
Italia 2023 (60′)

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  “Credo che l’amore sia l’unica forma di resistenza a cui le persone si aggrappano mentre sono ancora lì, in attesa di arrivare”. Sono le parole pronunciate da uno degli intervistati, in questo documentario asciutto ma pulsante, una tessitura intima di racconti di chi emigra verso l’Europa. Al centro, come il titolo dichiara, l’amore e le sue forme. Le testimonianze che lo compongono sono state raccolte tra il 2020 e il 2023 nell’isola di Lesbo, nella Repubblica di Cipro e nella Repubblica Turca di Cipro del Nord, tra i luoghi di primo approdo. Una mappatura amorosa in cui emerge con fermezza che l’amore è una forza politica in quanto forza motrice e perché definisce genealogie affettive, rapporti di prossimità o lontananza, alleanze di cura reciproca. Amore quindi come ciò che genera comunità. È la mancanza di amore, dunque, a generare anche un vuoto politico, come ci mostrano le immagini finali, in un controcampo impietoso che interroga tutte e tutti.

t.p. – festivaldeipopoli.org

“Per noi era fondamentale riportare il fenomeno delle migrazioni su un piano umano, partire da ciò che ci accomuna tutti e supera le divisioni. Volevamo dire al mondo che dietro le mille sofferenze, i soprusi, le difficoltà, dietro le retoriche che criminalizzano i migranti e ne fanno una massa informe da cui difendersi, ci sono storie, volti, cultura, c’è agàpe, amore appunto”

Velania A. Mesay

   “Ogni volta che un essere umano viene alla vita, con lui nasce anche l’amore”: è una delle tante frasi pronunciate in forma di testimonianza da migranti e rifugiati di passaggio tra il 2020 e il 2023 sull’isola di Lesbo, nella Repubblica di Cipro e nella Repubblica turca di Cipro del Nord, ma rappresenta un punto d’ingresso estremamente eloquente per Agàpe, film costruito sul dispositivo dell’intervista e che immediatamente si trasfigura connettendo, attraverso una forma nuda e quasi sussurrata, il campo occupato da sguardi e corpi in cerca di futuro e il fuoricampo delle loro storie e sofferenze. Lo sfondo di paesaggi sospesi, tra scorci naturali e segni della drammatica provvisorietà dei primi approdi all’Europa, racchiude una tessitura di pensiero e parole profondamente filosofica; una struttura saggistica nelle premesse che interrogando la realtà e l’essere umano abbandona ogni postura intellettualistica per trasformarsi in dono, senza però perdere il suo obiettivo, quello di una meditazione sull’amore in quanto motore della vita, organicamente resistenziale anche quando declinato nelle sue differenti articolazioni: familiare, romantico, universale, l’amore è sempre generatore di nuove appartenenze e di storie collettive, ma la sua accezione più intrinseca è preda di oblio e di indifferenza. C’è in Agàpe, presentato e premiato in Italia al Festival dei Popoli, il germe di un approccio crescente nel cinema contemporaneo che interroga la società e la Storia non accettando però di farsi mero documento di attualità o di cronaca: qualcosa che sta tra la destituzione del potere dell’autore di fronte alla complessità della vita nel terzo millennio, di fronte al suo desolante primato di malcelata violenza che soffoca voci e corpi degni di testimonianza, e la capacità di trovare la natura pulsante e essenziale del cinema in processi di depensamento della messa in scena, di esposizione consapevole alla dimensione dell’evento in quanto barlume (lucciola, ci ha detto Didi-Huberman) di nuova intensità politica, dove il luogo comune delle immagini – che si tratti di una piana mossa dal vento o di una carica della polizia su corpi in fuga – diventa il luogo del comune. Anche per questo Agàpe non è un atto di indagine, ma di restituzione, e persino profanazione, dove al pathos apocalittico di molte narrazioni odierne sulle rotte migranti, capaci soltanto di impietrire il mondo separandolo dal nostro sentire, si sostituisce il tocco neutro, modesto, disincantato che ridona al mondo e a noi stessi la responsabilità del nostro sguardo.

Marco Longo – filmidee.it

“Ricordo l’emozione che ho provato intorno al 1960, più di mezzo secolo fa, vedendo il film di Pasolini Comizi d’amore, in cui il regista andava in giro per l’Italia chiedendo alle persone cosa fosse per l’oro l’amore. Agàpe ha un precedente nel cinema di Pasolini che voleva essere un cinema di poesia e non di prosa. La prosa mette lo spettatore a confronto con una vicenda chiara, definita, con un arco narrativo comprensibile, mentre la poesia lascia spazio allo spettatore facendo sì che ci metta del suo. Questo film è un cinema di poesia perché rifiuta i modi del cinema di prosa, che spesso è un cinema politico, che fa leva su sentimenti di superficie più che profondi, mettendoci di fronte alle idee e alle ideologie. Nel cinema di prosa il regista prende il sopravvento sulle immagini che mostra e sulle persone che vuole raccontare, qui invece i registi si mettono a disposizione delle persone intervistate e rimangono all’ascolto. Il passo successivo di questo film è l’azione, ma non sono i registi a dircelo, è lo spettatore che in base alla comprensione, alla partecipazione e all’immedesimazione con queste vicende si sente coinvolto fino al punto da capire che è giunto il momento di reagire a tutto questo. L’azione non deve essere necessariamente qualcosa di politico e importante, ma anche semplicemente mettersi all’ascolto dell’altro”.

Goffredo Fofi – evento al Cinema Troisi

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