Autobiography

Makbul Mubarak

Con il padre in carcere e il fratello all’estero per lavoro, il giovane Rakib è rimasto l’unico custode di una dimora disabitata appartenente a Purna, ex generale in pensione, presso la cui famiglia il clan di Rakib è al servizio da secoli in una città dell’Indonesia rurale. Quando Purna torna a casa e inizia la campagna per essere eletto sindaco, Rakib si lega all’uomo, diventato per lui mentore e figura paterna, e trova la propria vocazione facendogli da assistente, nel lavoro e nella vita. Quando un giorno un manifesto elettorale di Purna viene trovato vandalizzato, Rakib non esita a darsi da fare per rintracciare il colpevole…

film edito solo in Versione Originale Sottotitolata –
Indonesia/Fra/Ger/Pol/Singapore/Filippine/Qatar 2022 (116′)
VENEZIA 79° Orizzonti – premio FIPRESCI

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   L’ho visto a Venezia, entrando in sala quasi per caso, attratto da qualche termine letto nella sinossi: Indonesia rurale, casa disabitata, carcere, padre. Film d’esordio dello sconosciuto Makbul Mubarak, ha un titolo che apre ogni mondo: Autobiography. Molto contento di averlo visto, pensavo che – cosi introverso, esotico, trasversale a più generi – non avrebbe trovato una distribuzione. Quando ho letto che dal 4 aprile sarà nei nostri cinema (col sottotitolo Il ragazzo e il generale), tra me e me mi sono congratulato con i distributori. Rakib, adolescente con padre in prigione e fratello all’estero, fa il custode di una villa abbandonata, casa magnetica e misteriosa di proprietà di Purna, generale in pensione di ritorno in città per candidarsi sindaco. In un rapporto attraversato da tensioni silenziose, Rakib diventa il factotum di Purna e Purna il suo mentore. Finché un giorno un manifesto elettorale viene vandalizzato e Rakib si mette sulle tracce del colpevole: da qui in poi è violenza. L’Autobiography del titolo è almeno in parte quella del regista, figlio di un funzionario fedele al regime del dittatore Suharto. Ma è anche quella dell’Indonesia, della sua dittatura sanguinaria durata più di trent’anni, dal 1965 al 1998. Due autobiografie che insieme compongono un’indagine perturbante sull’adolescenza nella miseria sociale, il bisogno di fedeltà, la fame di padre, i fantasmi edipici evocati e coltivati dal potere assoluto. Bapakisme (bapak, padre) è una parola indonesiana a metà tra patriarcalismo e paternalismo. Era molto in voga negli anni feroci di Subarto, chiamato “padre dello sviluppo” e celebrato come genitore autorevole a cui affidarsi. Possiamo quindi dire che Autobiography è anche un film sulla trasmissione del patriarcato, il culto del capo e il gioco di specchi che riflette le vite delle prede e del predatore.

Vittorio Lingiardi – il venerdì

Nei trent’anni di dittatura militare in Indonesia, da metà anni Sessanta alla fine degli anni Novanta, mio padre ha lavorato come impiegato del regime. Io sono cresciuto, considerando la sua lealtà verso lo Stato come qualcosa di intrinseco alla vita della mia famiglia. Osservandolo, ho imparato che la lealtà è quello che rende una persona degna di rispetto: un principio che ritenevo molto vero e, a quel tempo, soddisfacente. In realtà, più crescevo, più ero assillato da un dubbio: la lealtà è degna di rispetto, anche se e quando è promessa a qualcosa di mostruoso? Se in questo caso smettessimo di essere leali, ciò sarebbe considerato tradimento, o lotta per la giustizia? E ci renderebbe persone buone o cattive? Autobiography è un’indagine sentimentale sulla mia adolescenza, sul mio Paese e sui valori con cui sono cresciuto – che vengono insegnati dovunque ancora oggi, a ventiquattro anni di distanza dal collasso della dittatura. In una società con una tale storia di repressione, cosa ci vuole per potersi definire ‘una brava persona’?

Makbul Mubarak

  Mubarak non evoca i fantasmi del crepuscolo di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, le testimonianze da re-enactment di L’atto di uccidere e The Look of Silence, il flusso di coscienza deviato di Autohystoria, Mubarak sta esattamente in mezzo. Fuor di metafora, simbolismo, immaginario, Autobiography è un’enorme tavolozza che evoca corpi che comandano e corpi che eseguono, corpi che hanno un’uniforme e corpi che non ce l’hanno, corpi che torturano e corpi che sanguinano. I primi hanno il potere, e quindi la memoria, i secondi non hanno nulla, e quindi non ricordano – o è il contrario? Mubarak non si risparmia un meccanismo di visione ricco e sofisticato, tutto basato su specchi, porte, spioncini, barriere, superfici sulle quali far triangolare il punto di visione della camera e portare l’esperienza dello spettatore da una parte o dall’altra della dicotomia che taglia in due il film. Autobiography, infatti, si sposta tra il dominio di Purna e quello di Kib, tra la calma piatta della casa-ventre del primo e il caos generoso delle strade battute dal secondo, tra la generazione ritta in piedi e quella dalla schiena piegata.

Luigi Coluccio – mymovies.it

  Per comprendere adeguatamente Autobiography, il suo film debutto, bisognerebbe conoscere alcune vicende biografiche del regista Makbul Mubarak. Sebbene sia fondamentale non enfatizzare eccessivamente i parallelismi o le influenze della vita reale, qui è rilevante il fatto che la storia del film sia solo indirettamente ispirata alla storia familiare del regista. Costui è figlio di importanti funzionari pubblici che sostenevano il regime dell’ex dittatore del paese, Suharto. Autobiography riflette giustamente sui temi della lealtà e della vicinanza al potere, ma li rappresenta su un ceto sociale completamente diverso e anche in un periodo storico diverso: il presente. Quindi, in quest’epoca di auto-narrazione e in cui sono di moda i memoirs personali, Mubarak invita a considerare il concetto di “autobiografia” in senso più astratto. È quasi un thriller, intenso, cupo e pieno di composizioni bilaterali dall’atmosfera sordida filmate attraverso superfici riflettenti, come finestre di plexiglass ricoperte di funghi. Sembra un sogno che l’Indonesia, perseguitata dal suo passato, sta facendo su sé stessa – un’autobiografia “nazionale” – con il suo precedente regime politico fascista che si riflette nella dinamica di potere tra un presidente regionale, il generale Pruna (Arswendy Bening Swara), e il suo giovane sottoposto. Rakib, detto Kib (Kevin Ardilova), domestico diventato confidente del presidente, è l’ultimo della sua famiglia ad essere al servizio della tenuta dei Purna (interessante l’idea delle dinastie parallele: dei potenti e dei discendenti degli “aiutanti” che li assistono e gettano i loro rifiuti). Il padre di Kib è in prigione, così Pruna funge da figura paterna sostitutiva e, almeno inizialmente, il giovane è totalmente d’accordo. In questa fase della sua vita le opzioni sono o andare con suo fratello a lavorare in cantiere vicino a Singapore, dove verrebbe trasportato oltre il confine da un gangster locale, o lasciare la tenuta del generale e unirsi alla sua scorta. Con un tono che ricorda Full Metal Jacket, Mubarak mostra come i giovani uomini facili da influenzare possano trovare conforto e senso di appartenenza non tanto nell’ideologia fascista, quanto piuttosto nel sopprimere la propria umanità per diventare soldati robotici fedeli a una causa – “nati per uccidere”, per citare il film di Kubrick soprammenzionato. Kib sembra sentirsi spaventosamente più forte quando è costretto ad arrestare un manifestante che protesta contro le centrali idroelettriche progettate dalla regione, che danneggerebbero le risorse agricole degli abitanti della zona. Ma la conseguenza negativa di tutto ciò porta Kib quasi a rifiutare “la pillola rossa”, il quale alla fine intravede un po’ di moralità nella vicinanza con la fonte di un potere tetro.

David Katz – cineuropa.org

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