La zona d’interesse

Jonathan Glazer

Il comandante di Auschwitz Rudolf Höss vive in un’ampia area all’interno del campo di concentramento, coltivando il sogno di una esistenza perfetta insieme alla moglie Hedwig: giornate fatte di gite in barca, il lavoro d’ufficio di lui, i tè con le amiche di lei e le scampagnate in bici con i figli… Mentre scorre apparentemente placida la quotidianità entro le mura della sua villa, da fuori arrivano i segnali dell’orrore che si sta consumando.

The Zone of Interest
Gran Bretagna/Polonia/USA 2023 (105′)
2 Osca: film internazionale, sonoro

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   A dieci anni esatti dal discusso Under the Skin (2013), interpretato da Scarlett Johansson e presentato non senza polemiche in concorso a Venezia, Jonathan Glazer torna con un nuovo progetto fortemente divisivo. Tratto dall’omonimo romanzo (2014) di Martin Amis, il film è una straordinaria riflessione sulle potenzialità del linguaggio cinematografico contemporaneo, che affonda le sue radici nell’orrore dell’Olocausto elevandosi a esperienza di visione di rara potenza espressiva e imponendosi in tutta la sua audacia su un delicatissimo tema, raramente affrontato in maniera così radicale. Tutto il film, girato in un digitale ad altissima definizione che cristallizza le immagini in glaciali quadri illuminati dalla sola luce naturale, sconvolge nella sua profonda ricerca sul sonoro e sulla negazione dell’immagine, evidente fin dal prologo, che trova impressionante compimento in soluzioni sperimentali da brivido. A una “normalità” sempre sull’orlo dell’implosione emotiva, in cui i protagonisti sembrano anestetizzati e ridotti a uomini privi di una reale percezione della realtà, si contrappone la mostruosità del campo di sterimino, ma Glazer, spingendo al limite il valore performativo della messa in scena, non lascia mai che l’evidenza delle atrocità prenda il sopravvento: bastano il rumore di un treno (che noi sappiamo essere stipato di deportati al macello), una flebile colonna di fumo dalla ciminiera dei forni crematori o le alte mura di cinta con alla loro sommità il filo spinato per trasmettere disagio. Anche la presenza immobile e severa della natura diventa un elemento di grande portata concettuale. Il salto temporale nel finale, orchestrato con sublime padronanza del mezzo cinematografico, è da togliere il fiato. Straordinario per regia e direzione della fotografia (di Łukasz Żal), il film è stato girato ad Auschwitz nella seconda metà del 2021, mentre la residenza degli Höss è stata ricostruita dallo scenografo Chris Oddy, con gli attori liberi di muoversi all’interno della scena mentre venivano ripresi da più di dieci angolazioni contemporaneamente. Fondamentale il contributo della compositrice britannica Mica Levi.

longtake.it

   Avvertenza: La zona d’interesse non è un film rassicurante. Tutt’altro. Lo si capisce da ciò che accade subito dopo i titoli di testa, e che non sveleremo. Seguono una serie di immagini che mostrano una grande villa con piscina piena di fiori e piante meravigliose. Una famiglia tedesca benestante, con la servitù, gli amici, i figli che si divertono, le gite in barca, i tè della domenica e un viavai di gioielli e pellicce. Sembra il racconto di un’ordinaria quotidianità di persone che “ce l’hanno fatta”, in realtà è il raggelante quadro della banalità del male che Jonathan Glazer propone nel suo nuovo film. Vincitore del Gran Premio Speciale della Giuria alla 76ma edizione del Festival di Cannes, candidato agli Oscar® per UK e applaudito alla Festa del Cinema di Roma, mira a raccontare il dramma della Shoah con uno stile moderno e originale – lontano anni luce, per intenderci, dai vari Schindler’s List e La vita è bella. Perché questa volta i campi di concentramento sono fuori, appena fuori la villa bucolica in cui vivono il comandante di Auschwitz Rudolf Höss e sua moglie. Il campo è proprio di fronte alla villa, i rumori costanti delle atrocità che vengono perpetrate al suo interno accompagna la vita tranquilla di questa famiglia addirittura felice per i privilegi conquistati sulla pelle della popolazione ebraica (…) È volutamente disturbante, questo La zona d’interesse, ben diverso da film come Il figlio di Saul di Laszlo Nemes. Intanto perché qui l’orrore accade fuori, la prospettiva seguita è quella di chi questo orrore lo organizzava, supervisionava e perpetrava ogni giorno come fosse un “lavoro” qualsiasi. Glazer non restituisce il ritratto di un carnefice visionario esaltato, ma la crudezza di un uomo comune e medio(cre), un funzionario che cerca di adempiere agli ordini nel modo migliore possibile, e intanto pensa alla casa, al bene per i propri figli, alla sua carriera. Un contrasto perenne, talmente stridente da far venire conati di vomito. Verranno anche al protagonista, verso il finale che non spoilereremo, ma non saranno segno di senso di colpa. Anche il passaggio all’oggi è scioccante, la cinepresa entra ad Auschwitz e mostra le pulizie prima dell’ingresso dei visitatori. C’è chi spazza per terra accanto ai forni crematori, chi pulisce le vetrate che mostrano centinaia di valigie, scarpe, stampelle. E poi le foto di chi quel campo lo ha attraversato davvero, mentre fuori famiglie come quella di Höss gioivano delle nuove pellicce arrivate. Imbarazzo, dolore, schifo: se vi provoca sensazioni simili il nuovo film di Glazer, discutibile e per questo da vedere, ha colpito nel segno.

Claudia Catalli – wired.it

  L’Olocausto resta dietro un muro mentre i primi piani su questi pasciuti tedeschi mancano. La moglie dell’ufficiale ha viso e portamento imbellettato di Sandra Hüller, protagonista anche di Anatomia di una caduta. Il regista prende una distanza formale, severa, in un laboratorio estetico che utilizza luci e spazi naturali per raccontarci non la banalità del mostro, ma la quotidianità. Che fa ancor più paura. Commenta con schermate nere o rosse nel montaggio, vira immagini in negativo per stringerci in contrasti tra bene familiare e male del mondo e poi ci trasporta nel tempo pietrificandoci dentro qualsiasi lacrima, e impedendoci di versarne.

Francesco Di Brigida – ilfattoquotidiano.it

  Prima di avvicinarsi a La zona d’interesse consiglio di cercare il documentario Final Account, girato da Luke Holland nel 2020: il regista, poco prima di tornare alla polvere, va a interpellare gli ultimi nazisti ancora vivi, in un dispositivo che ha pochi eguali, forse solo il lavoro di Joshua Oppenheimer sugli aguzzini del regime indonesiano in The Act of Killing. Gli anziani nazi trascorrono la terza età in piccoli centri della Germania come docili vecchietti. Non furono autorità né dirigenti, ma nazisti “normali”, semplici esecutori ora in libertà che ricordano serenamente lo sterminio degli ebrei, auto-assolvendosi. Non potevano fare altro, dicono, ribellandosi sarebbero stati arrestati e uccisi. A un certo punto uno di loro, in uno strano lampo di sincerità, afferma: “Non si poteva non sapere, c’era un odore dolciastro tutto il giorno…”. L’odore è quello della carne bruciata delle vittime. Da qui si parte per entrare ne La zona d’interesse, il film di Jonathan Glazer, dopo la presentazione in concorso al Festival di Cannes (Gran premio speciale della giuria), proprio nei giorni in cui veniva a mancare Martin Amis, l’autore del romanzo da cui il film è tratto, per continuare nella catena della morte.

Il film racconta la storia di Rudolf Höss (Christian Friedel), membro delle SS, che vive con la moglie Hedwig (Sandra Hüller) e i loro cinque figli in una bellissima casa con giardino, in cui allevano i bambini alla vita all’aperto e amano coltivare fiori. La casa è accanto al campo di Auschwitz dove ogni mattina Höss si reca a lavorare, essendo il comandante del campo di concentramento. E la zona di interesse è quella in cui vivono, che storicamente racchiude le venticinque miglia attorno al terreno. Tutto qui. O quasi. Nell’idea di mettere in scena il comandante Rudolf Höss, colui che stabilì la costruzione di Auschwitz per come lo conosciamo, compresa l’introduzione del gas Zyklon B nelle camere a gas, c’è una scelta radicale: non mostrare mai l’interno del campo. Filmando con luce naturale, appostandosi con gli obiettivi nella dimora degli Höss, casa e giardino, la messinscena lascia circolare liberamente i personaggi dentro le inquadrature, facendoli muovere proprio come fossero a casa loro. Così, come in un’installazione, veniamo portati in giro per la routine della famiglia, che si consuma senza particolari scossoni a un passo dal genocidio, il quale resta sempre fuori campo. La banalità del male, allora. Ma c’è di più e altro. I membri della famiglia si intrattengono in attività quotidiane come consumare la colazione, preparata dai loro domestici, provare dei trucchi, scegliersi i vestiti più appetibili che vengono recapitati, far crescere le rose. Il marito discute coi colleghi dei progetti, raffigurati in disegni e schemi, per l’efficientamento di una realtà industriale trattata come una fabbrica. La moglie, da parte sua, appena emerge l’ipotesi di lasciare quell’ambiente edenico per un trasferimento, protesta e pretende di restare lì, i piccoli stanno troppo bene all’aria aperta. E i bambini giocano, come tutti i bambini. Sono una famiglia normale, ecco il punto, ed ecco perché si va oltre la definizione arendtiana: non c’è banalità né male, nelle loro menti, c’è solo la normalità dell’esecuzione. E qui torniamo allo sconcertante documentario di Luke Holland, alle voci vere dei responsabili: perché c’è qualcosa che va a sabotare la placida tranquillità della famiglia. Può essere il segno visivo del fumo, oppure un rumore nella notte. L’orrore non si può vedere, ma si può sentire e odorare. Esatto: quell’odore dolciastro riportato dal vecchio nazista permea La zona d’interesse, che diventa una sorta di odorama del Male. Ciò che non vediamo assume forza devastante e lo annusiamo in ogni fotogramma: guardiamo attentamente davanti, dietro, di lato ai personaggi per cogliere un segno dell’orrore. Come nei film dei fantasmi dove bisogna trovare gli spettri nascosti nell’inquadratura. L’indicibile si trova in secondo e terzo piano. Il fuori campo è più devastante di ogni rappresentazione plausibile dello sterminio.

Jonathan Glazer tesse un dialogo sotterraneo e terribile tra la normalità della famiglia e l’abnormità del genocidio oltre il muro: un esempio per tutti, nella casa si lamentano del cibo mentre fuori si muore di fame ridotti a scheletri umani, anche se non lo vediamo, ma è già metabolizzato nella nostra memoria visiva. Lo stesso regista inserisce alcuni indizi grafici che sono atti etici: una dissolvenza in rosso, il sogno ricorrente di una bambina che pianta mele nei campi di lavoro, girato con telecamera termica per ottenere un’immagine in negativo, l’unica che il Bene può ottenere. La consapevolezza però è solo nella regia, cioè nella politica del linguaggio: le persone sullo schermo propongono una sospensione morale, non si pongono il problema, dunque aderiscono all’orrore.
Nell’ellissi finale ritroviamo Höss alle prese con la burocrazia di regime, ed ecco che interviene un’improvvisa museificazione, costruita in modo totalmente anti-retorico. Gli oggetti appartenuti alle vittime vengono esposti oggi. Höss è sconvolto da un conato, ma non “viene alla luce”, bensì scompare nel buio: il nero è l’unica dissolvenza possibile. La zona d’interesse sbriciola la retorica dei film sulla Shoah, e insieme pone una questione cinematografica, un dubbio ottico: il non vedere è vedere l’abisso. Per chi se lo chiedesse dopo la proiezione, è anche un film che ci parla, siamo anche noi che viviamo vicino al massacro, è anche colpa nostra. È uno dei maggiori film mai realizzati sugli olocausti, più che sull’Olocausto, cioè sulle tragedie epocali: una di queste è la tragedia di non voler vedere.

Emanuele Di Nicola – nocturno.it

1 commento su “La zona d’interesse”

  1. Meraviglioso film, sono contenta di averlo interpretato così come viene qui commentato. L’ho trovato sconvolgente nei dettagli minuziosi, i vestiti da scegliere portati al personale di servizio, inizialmente pensati come comprati ad un mercato dell’usato, si rivelano invece quelli rubati alle donne morte nel campo di sterminio… la madre della protagonista che, senza vergogna, pensa alle tende della amica vicina di casa prima della guerra , che non è riuscita ad accaparrarsi, ma che invece riesce a comprendere che non sta vivendo al di là del muro, anche lei bruciata nella notte tra le fiamme dei camini … e quindi se ne va* da quella famiglia dove la figlia sa perfettamente quello che succede al di là del muro (alla servitrice dice.. “ci metto nulla a far spargere le tue ceneri da mio marito”…)… *unico momento di speranza nel pensare a quel popolo che ha obbedito ad un pazzo nella propria “ignoranza” ( con il sogno : “finita la guerra faremo gli agricoltori”) per avere una casa ed un certo benessere… i conati finali… :anche Hoss capisce l’orrore che sta causando (la riunione con gli altri comandanti di quel numero sconfinato di campi di sterminio indicati in nero nella cartina geografica è pazzescamente assurda, si parla con normalità di 720.000 ungheresi da bruciare nel modo più veloce possibile come fossero roba vecchia chissà se i nuovi bruciatori a catena presentati dai due ingegneri a Hoss sono stati poi attuati o meno… così per essere il più efficienti possibile a liberarsi di quella popolazione orrenda….) o è vittima dell’orrore stesso ? (le ceneri gli hanno procurato una grave malattia ??)…

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