Il nastro bianco

Michael Haneke

Germania, qualche mese prima dello scoppio del conflitto mondiale del 1914. In un villaggio nel nord misteriosi e terrificanti avvenimenti vengono a turbare la vita apparentemente tranquilla degli abitanti. Nessuno si dà pace perché non riesce a comprendere cosa possa causare tali episodi che creano tra tutti panico e terrore. Improvvisamente, però, il maestro del villaggio comincia a capire chi potrebbe esserci dietro quei disastri… Haneke va alle radici del male componendo una straordinaria parabola sull’origine del nazismo e di tutti i fascismi; un magnifico, spaventoso affresco storico che diventa anche metafora del presente.

Das Weiße Band
Austria/Francia/Germania 2009 (144′)
CANNES: Palma d’oro

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Un filo teso fa cadere cavallo e destriero; un granaio si incendia; una donna muore mentre sta lavorando; il figlio bello e biondo di un barone e quello deforme di una vedova vengono seviziati. Sotto un manto di fervore religioso, di ipocrita perbenismo e di cieca e muta obbedienza, a un gruppo di pargoli viene imposta una rigida educazione basata su una matrice conservatrice. Schiacciati da ferree regole, punizioni, umiliazioni e vessazioni, i bambini considerati innocenti portano al braccio un nastro bianco, premio e simbolo di purezza. Diventeranno, allo stesso tempo, fragili vittime e pericolosi carnefici.

   Il (nastro) bianco caratterizza i bambini del villaggio come esseri immacolati e incapaci di qualsiasi forma di “sporcizia morale”. In realtà proprio dentro di loro vi è la forma di iniquità peggiore: il germe della violenza e del nazismo che verrà. Il nastro bianco sembra quasi un trattato filosofico: Haneke (come sempre) mostra pochissimo e lascia intendere molto sulla società, in divenire, che vuole rappresentare. La grande ambizione contenutistica del film viene accompagnata dalla fotografia memorabile di Christian Berger (nominato all’Oscar): raggelante, magniloquente, solenne. Un bianco e nero splendido, unito a una regia sempre precisa fin nei minimi movimenti, rendono la pellicola un’opera esteticamente eccelsa, tra i migliori risultati del geniale regista di Funny Games (1997) e Niente da nascondere (2005). La freddezza estrema della fotografia, e del film in generale, crea però una sorta di barriera nei confronti di uno spettatore che fatica a entrare fino in fondo nella vicenda: si rimane a bocca aperta quasi più per le immagini magnifiche che per la scoperta che, dietro a quei volti candidi, si nascondono i carnefici della Germania del futuro. Haneke, con Il nastro bianco, porta a termine il personale percorso di rivelazione del male, che ha toccato ogni sua pellicola, da Benny’s Video (1992) fino a Il tempo dei lupi (2003), dimostrando che la crisi d’identità di cui l’uomo è spesso vittima può avere origine semplicemente da uno stato mentale contorto, in grado di segnare per sempre una nazione e un’epoca intera.

longtake.it

   Anche se Il nastro bianco sembra, a prima vista, diverso dai precedenti, tutti i film di Michael Haneke hanno lo stesso soggetto e lo stesso protagonista: il male. Questa volta il regista austriaco va alle radici del male componendo una straordinaria parabola sull’origine del nazismo e di tutti i fascismi che ambienta in un villaggio tedesco, Eichwald, all’inizio del 900. Narrato in “voice over” dal maestro del paese, diventato vecchio, il film inizia con una caduta da cavallo; causa un filo teso di proposito, vittima il medico locale. Quando la vittima, dopo una lunga degenza, torna a casa, la vediamo trasformarsi in carnefice: della governante e della figlia, una ragazzina costretta a subire le sue attenzioni pedofile. Né le altre figure d’ autorità di Eichwald sono molto meglio di costui; a cominciare dal pastore, che inculca la morale a frustate e distribuisce nastri bianchi da mettere al braccio come segno di purezza. Se certi personaggi e atmosfere evocano il cinema di Bergman, a confronto il regista svedese era un campione di ottimismo. Nella precisione geometrica dei gesti con cui descrive l’organizzazione gerarchica di una società, e le conseguenze che le sono inerenti, nella sobria perfezione della fotografia (direttamente ispirata alle immagini di August Sander, fotografo tedesco d’ inizio del secolo scorso, e realizzata con pellicola a colori poi trattata in bianco e nero) il film è un grido silenzioso (non c’ è neppure la musica) e tuttavia udibilissimo contro il sadismo dei puritani d’ ogni tempo e luogo, una requisitoria scagliata in faccia all’autorità. Che sia quella degli adulti verso i bambini, dei ricchi nei confronti dei poveri, delle gerarchie religiose o dei poteri costituiti, è sempre questa la vera origine del male..

Roberto Nepoti – La Repubblica

  C‘era una volta l’ordine, se non l’armonia. C’era una volta un mondo in cui ogni cosa stava al suo posto e ognuno sapeva che posizione occupare. C’era una volta un paese, la Germania del 1913-1914, con istituzioni degne di questo nome, la chiesa, la scuola, la medicina, la nobiltà terriera, la polizia. Fino a quando tutto andò in frantumi, le istituzioni rivelarono il loro vero volto, gli individui governati da quelle istituzioni impararono ad allargare le maglie del loro ordinamento o forse ad applicarne l’insegnamento alla lettera fino a rovesciare le certezze in violenza, l’ordine in caos, il contratto sociale in sopraffazione. Ambientato in un villaggio di campagna della Germania del Nord, girato in un bianco e nero luminoso e tagliente che ricorda da vicino i ritratti fotografici di August Sander, Il nastro bianco racconta la fine di quel mondo esplorandone i lati più oscuri. Meglio: rivelando ciò che si nascondeva in quel chiarore abbagliante. È il “metodo” Haneke, messo a punto in film come Funny Games, Niente da nascondere o La pianista, e portato qui alle sue estreme conseguenze. Stilistiche e morali.

La scena d’apertura è tutto un programma. Dal fondo di una campagna idilliaca, un uomo a cavallo si avvicina quando all’improvviso qualcosa di invisibile – un filo teso fra due arbusti – abbatte cavallo e cavaliere. Morale: un’immagine non è mai solo ciò che si vede, è anche ciò che nasconde. Una società non è mai come vuole apparire, è anche ciò che occulta e rimuove. Il resto del film segue questa linea demolendo poco alla volta, in tutta calma, il sistema sociale, politico, religioso, che regge quel mondo e che presto sarà spazzato via dalla Prima guerra mondiale. Incidenti inquietanti e veri delitti si susseguono senza che vi sia mai con certezza un colpevole. Una contadina muore. Un granaio prende fuoco.

Un bambino ritardato viene aggredito e sfigurato. Intanto i padri puniscono, i pastori predicano, i padroni comandano, i giovani si innamorano, i bambini obbediscono – o fingono di obbedire. Fino a disegnare un crescendo di castighi e trasgressioni, violenze e ritorsioni, che è lo scheletro stesso di quel mondo e forse il cuore segreto di ogni cellula sociale. Coppie, famiglie, classi sociali: ovunque cova una violenza che può essere fisica o solo verbale (vedi la terribile invettiva del medico contro la sua amante). Inevitabile pensare che quei bambini irreggimentati e sinistri saranno adulti in epoca nazista. Ma Haneke non parla solo del passato. Tutto è narrato dalla voce invecchiata di uno dei protagonisti, il maestro del villaggio, molti anni dopo. L’autoritarismo prussiano-protestante è solo uno dei volti del Male. Questo magnifico, spaventoso affresco storico è anche una metafora del presente. Il nostro presente.

Fabio Ferzetti – Il Messaggero

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