Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile

Nicolas Philibert

In un mondo ad alta competizione in cui le fragilità sono messe ai margini, ci sono luoghi che tentano di mantenere viva la funzione poetica dell’uomo. L’Adamant è uno di questi: situata sulle acque della Senna, nel cuore di Parigi, questa struttura galleggiante accoglie adulti che soffrono di disturbi psichici e si prende cura di loro tramite l’arte, la musica, il disegno… Una terapia per il cuore, prima che per la mente.

Sur l’Adamant
(film edito solo in versione originale sottotitolata)
Francia/Giappone 2023 (109′)
BERLINALE 73°: Orso d’Oro

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   “Siamo liberi di vedere quello che vogliamo”. In un mondo che spesso si riduce all’atto di spuntare caselle, come sottolinea un cartello che appare alla fine di Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile, la bontà apre un finestra salutare su uno spazio singolare e le persone che ospita. Lo spazio in questione è un day hospital di tipo molto insolito, una barca ormeggiata sulle banchine della Senna a Parigi, dove vengono organizzati laboratori, disegno, musica, danza, cinema, cucito, riflessione sull’attualità, ecc., per donne e uomini che convivono con malattie mentali. Non c’è distinzione visiva tra pazienti e assistenti qui, ma un approccio partecipativo basato sullo scambio e sul dialogo; la disposizione della nave è favorevole alle conversazioni private e al flusso di luce, e la tranquillità del fiume incoraggia notevolmente il rilassamento delle menti che a volte sono in subbuglio, avendo i loro proprietari sofferto molto nel corso della loro vita. Perché la malattia mentale è, ovviamente, al centro di questo documentario che ribalta sottilmente i valori, poiché il regista abbatte delicatamente le barriere che ci separano da questa follia, di cui spesso abbiamo istintivamente paura in quanto estranei, trasformandola in una commovente realtà umana, che ci sembra così vicina da risultare per quello che realmente è: una semplice distorsione nella percezione della realtà. Ma una volta superati certi confini e navigati certi abissi, è incredibilmente difficile risalire alla superficie del mondo… Da qui la necessità di luoghi coinvolgenti come l’Adamant, e di artisti illuminati, sensibili, sinceri e spregiudicati come Nicolas Philibert, perché senza talento autentico e investimento personale, le buone intenzioni non vanno molto lontano. Dopo aver girato il film sulla barca nel corso di un’estate, il regista trova il perfetto equilibrio tra prospettive esterne ed espressione interiore, catturando momenti di comunità ed esplorando le vite dei pazienti che spesso parlano molto lucidamente della loro debolezza e della loro solitudine sociale. Senza mai mascherare le derive e i deliri che vivono questi pazienti, il film traccia un ritratto molto rispettoso e, a volte, struggente, che fa anche sorridere (come dice uno dei protagonisti, “è divertente ma è anche spaventoso”). Quello di Philibert è un approccio duttile e naturale, insieme metodico e poetico, che dimostra una grande comprensione umana e cinematografica, e che stabilisce con dolcezza e modestia un contatto in un ambiente dove bisogna trovare le chiavi giuste per connettersi (“è complicato, le parole, la comunicazione”, “qui le persone hanno problemi di immagine”). Il regista sfrutta al meglio questa vicinanza, senza mai imporre il proprio punto di vista, per offrire il suo messaggio: la follia è reale, ma è anche relativa perché siamo “insieme, nel bene e nel male” e alcuni di noi hanno solo bisogno di ancore di salvezza, attenzione, ascolto, gentilezza e luce.

Fabien Lemercier – cineuropa.org

Alcuni anziani protagonisti ricordano le trasmissioni di candid camera o di camera invisibile, come la chiamano, ossia quel format creato negli Stati Uniti nel 1948, consistente nel riprendere persone con telecamere nascoste, messe in situazioni buffe o in scherzi, rivelando loro il trucco solo alla fine. Si tratta di un momento teorico importante in Sur l’Adamant (Sull’Adamant), ultimo lavoro del documentarista francese Nicolas Philibert, presentato in concorso alla Berlinale 2023. La camera nascosta infatti è l’antitesi del metodo di lavoro del cineasta, oltre che un qualcosa di moralmente discutibile. Il suo approccio è sempre stato quello di farsi accettare dai suoi personaggi, di non cercare l’invisibilità quanto piuttosto la prossimità, la coesistenza, l’entrare nel mondo dei soggetti che vuole raccontare. Così è anche in questa opera, dove in più di un’occasione si sentono i protagonisti rivolgersi a chi sta dietro la macchina da presa, chiedendo se stiano filmando, presentandosi loro. «Mi chiamo Nicolas» così il regista manifesta la sua presenza, inserendo questo momento. Nicolas Philibert è noto in Italia per il film Essere e avere dove documentava le attività di una scuola sperduta in un mondo rurale. Ancora una struttura di frontiera e quella dell’Adamant, nonostante questa sia ubicata nel centro della capitale francese. Si tratta di un centro di cura delle malattie o dei disturbi mentali, evidentemente ispirato ai principi dell’antipsichiatria, decisamente anomalo anche per la sua conformazione, in una grande imbarcazione ancorata sulla Senna. Un’isola in senso figurato come letterale, dove si portano avanti principi di ascolto e rapporto umano con il paziente, personalizzando così le terapie. Un centro di resistenza contro la tendenza alla sanità disumana se non all’ospedalizzazione, che strapperebbe i soggetti in cura dal loro contesto di vita. Un manipolo di operatori psicologici e psichiatrici che porta avanti strenuamente un progetto contro il disinteresse delle autorità sanitarie. Che seguono persone che si trovano in quel limbo tra essere considerati sano o malati, tra essere degni o meno di un’assistenza, sociale e/o sanitaria, strappandoli a una deriva. «Avrei potuto diventare un clochard», dice uno di loro, se non fosse stato seguito dall’equipe dell’Adamant. Philibert riprende le sedute collettive e individuali, le pratiche di accettazione dei soggetti nella struttura. E soprattutto incontra lui stesso i pazienti, a uno a uno. Li fa parlare, li lascia esprimere. Come sempre con il suo approccio di prossimità. Emergono così figure straordinarie, diversamente straordinarie, artisti, cantanti, musicisti.

C’è quello che canta una canzone dove cita Agnés Varda, chi disegna o dipinge sentendosi van Gogh. Ci sono gli amanti del cinema, di 8 ½ piuttosto che di Effetto notte. Già all’inizio si vedono le varie persone del centro discutere dell’organizzazione del loro film festival. Philibert fa una carrellata di questi personaggi che poi vengono ritratti anche da un fotografo, con e senza mascherina. Come nello stile dei grandi autori di documentari, mai didattico, Sull’Adamant comincia con varie immagini di quella bizzarra struttura, nel racconto dello spazio, in quel massiccio complesso galleggiante, mentre la mattina si aprono le finestre. E il film torna su quella scena in un finale malinconico, autunnale, nella foschia del fiume, mentre i platani sulle rive hanno le foglie gialle. Si riaprono le finestre e comincia una nuova giornata sull’Adamant, struttura preziosa che si spera non abbia i giorni contati.

Giampiero Raganelli – quinlan.it

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