Metà anni Sessanta. Il detective Babak Hafizi si trova sull’isola di Qeshm nel Golfo Persico per indagare sulla morte di un importante figura politica. I misteri, però, presto si infittiscono: terremoti inspiegabili, creature minacciose, persone che non sono chi dicono di essere. Cosa sta succedendo attorno al detective Hafizi?
Ejhdeha Vared Mishavad!
Iran 2016 (107′)
Una Chevrolet arancione attraversa il deserto. E’ il 22 gennaio 1965 e il giorno prima il Primo Ministro iraniano è stato ucciso davanti al Palazzo del Parlamento. In un vecchio relitto, un prigioniero politico si è impiccato. Sulle pareti ci sono pagine del suo diario e degli strani simboli. L’ispettore di polizia Babak Hafezi sta conducendo le indagini. E sul luogo ci sono anche strani fenomeni, come una scossa di terremoto ogni volta che qualcuno è sepolto nel cimitero del deserto. Hafizi, con un tecnico del suono e un geologo si trovano sull’antica isola di Qeshm nel Golfo Persico. Cinquant’anni dopo le registrazioni si trovano in una scatola e i tre protagonisti sono stati arrestati.
Quasi un noir politico. Da una storia vera. Che segue più piste parallele, che inizia a lavorare sui segni della memoria con la presenza del registratore all’inizio. Ma che presto si disperde in un autocompiacimento alla ricerca di un’artefatta fisicità (la terra del deserto) che stona con il ricercato elemento figurativo come se i colori del tempo avessero bisogno di esere ravvivati dalla presenza, per esempio, dei palloncini o dagli occhiali con le lenti rosse e verdi del tecnico del suono. Mani Haghigi, già sceneggiatore e attore per Asghar Farhadi (era uno degli attori in About Elly), dirige con A Dragon Arrives! il suo secondo film dopo Modest Reception.
Il suo cinema vuole colpire e lo fa anche in maniera piuttosto egocentrica. Dove ciò che smarrisce principalmente è la tensione in questo rimalzo col tempo, dove anche la forza del paesaggio resta come intrappolata come in una fotografia ingiallita. Gli accadimenti hanno la freddezza della casualità. Ma questa distanza non appare voluta ma è il risultato di un cineasta che, come Kiarostami e Panahi, vule fare un film sul cinema mentre racconta un’altra vicenda. Dove lo spettatore deve rintracciarlo nelle registrazioni dei suoni naturali, nell’utilizzo della voce fuori-campo. E, in più, nei simboli, nel modo in cui vengono inquadrati gli animali, sembra entrare in gioco un’altra componente, quella dell’artista-pittore…
Simone Emiliani – senteriselvaggi.it