Adam

Maryam Touzani

Nella Medina di Casablanca, Abla, vedova e madre di una bambina di 8 anni, gestisce una pasticceria marocchina. Quando Samia, una giovane donna incinta, bussa alla sua porta, Abla è lontana dall’immaginare che la sua vita cambierà per sempre.

Francia 2019 (98′)


S
viluppato attorno ad un’idea minimale, ma messa in opera con grande cura e dedizione, anche grazie ad un cast, altrettanto minimo, ma decisivo quanto a efficacia espressiva e tensione attoriale, Adam riflette, in parte quel che sapevamo già del cinema dell’area maghrebina. Una consolidata forza decisionale affidata ai personaggi femminili, che restano assoluti protagonisti delle vicende quando queste si svolgono nell’ambiente familiare, al contempo, però, assistiamo ad una subalternità di genere che rompe decisamente quell’equilibrio femminile che trova un limite proprio in questa impossibilità ad affermare diritti e restituire valore ai comportamenti che si reputano giusti, piuttosto che dare credito ad una tradizione che si perpetua nell’emarginare chi disobbedisce alle regole non scritte di una società patriarcale, ma spesso senza patriarchi.
Samia (Nissrine Erradi) è incinta, ma è da sola, non sappiamo perché, ma lo immaginiamo, non ha casa, non ha lavoro e gira in una città non sua per cercare l’una e l’altro. Da una finestra si affaccia la piccola Warda, figlia di Abla (Lubna Azabal) che da vedova, per vivere, cucina e impacchetta rziza e msemen. Al rifiuto inziale seguirà la naturale complicità. Samia dovrà dare alla luce il figlio, ma si sente costretta a darlo in adozione. La vita con una madre sola lo segnerebbe a vita e lo costringerebbe ad una dolorosa emarginazione.

Adam è un film che sa toccare con grazia corde sensibili della coscienza, sa farsi amare proprio per il semplice e quasi spontaneo approccio ai temi che restano sottesi tra i silenzi delle due donne. Sa farsi soprattutto amare perché è un film su un incontro tra diversità convergenti, tra caratteri femminili apparentemente distanti, ma straordinariamente vicini, sa lavorare, sotterraneamente, sulla necessità delle relazioni, sulla loro quotidiana evoluzione. Adam per larga parte è fatto di linguaggi silenziosi, comprensibili e plausibili. Linguaggi parlati dai corpi delle due bravissime attrici, che sanno offrire uno spettro di emozioni anche tra i silenzi dei dialoghi. Conoscevamo la sensibilità e le doti di Lubna Azabal, splendida protagonista in La donna che canta, ma non ancora quelle della giovane Nissrine Erradi, che sa conferire alla sua Samia quella determinazione, ma anche quella apertura verso il mondo con uno sguardo sospeso tra passato e futuro, tra tradizione ed emancipazione, che sembra farsi manifesto in quel corpo che porta dentro il piccolo Adam. È proprio il linguaggio dei corpi a sostituire quello delle parole. Maryam Touzani lavora sulle sue attrici anche sotto questo profilo, raccontando il loro passato, il loro presente di donne sole. In quei tratti di Abla davanti allo specchio in un intimo atteggiamento di semi compiacimento per il suo corpo ancora attraente, o nella lunga e tesa sequenza in cui i corpi di Samia e Abla trovano sincronia in un accenno di danza, laddove Samia sembra trasportare Abla in una nuova e più realistica direzione, o nell’insistito guardarsi di Samia deformata da una gravidanza forse non voluta fino in fondo, o, ancora, in quella stretta relazione fisica che si giocherà tra madre e figlio, una esplorazione amorevole e quasi ultimativa di Samia, divenuta madre, nei confronti del suo neonato. In questi tratti intimi ritroviamo i temi forse più segreti di questa storia.

Sono la manifestazione dei temi inespressi di una mancata rivolta generazionale, di una assenza della fisicità come espressione negata e quindi di una repressa femminilità. Il cinema riflette gli effetti delle mancate rivendicazioni e l’attenta Touzani mostra i desideri ancora più segreti e forse mai espressi, proprio quelli che restano celati tra le pieghe di quella sconfessata fisicità che a furia di inibizioni diventa ancora più segreta e inaccessibile. Samia con la sua gioventù e la sua esuberanza ancora visibile, fa rifiorire la sensualità di Abla anche come possibile forma di affermazione. Una sensualità che qui si unisce al cibo, alla sua preparazione, alla sensualità del tatto e a quella della malleabile pasta che serve per sfornare i dolci.
Adam lavora sotterraneamente su questi concetti perfino elementari, ma essenziali, a volte dispersi tra mille rivoli e qui invece sapientemente ed elegantemente ricuciti dentro una trama credibile e una regia di raffinata fattura, che sa fare spaziare lo sguardo pur nell’angusta casa di Abla che diventa spazio di confronto e luogo domestico dentro il quale le due donne sanno trovare una loro rispettiva, autarchica, dimensione. In Adam, nome che sembra preludere ad una rifondazione, tutto sembra nascere spontaneo, tutto sembra prendere avvio da quell’incontro tra due diversità che sanno trovare uno sguardo comune in quella femminilità generatrice che sa guardare lontano mentre si occupa di quel presente così incombente.

Tonino De Pace – sentieri selvaggi

 

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