Il collezionista di carte

Paul Schrader

Wiliam Tell, ombroso giocatore d’azzardo professionista, vive senza fissa dimora e senza legami affettivi dopo aver scontato diversi anni di detenzione, tormentato dal suo passato di carceriere nell’ex penitenziario di Abu Ghraib, in Iraq. La sua grigia e meticolosa quotidiniatà viene incrinata dalla proposta di La Linda, che finanzia assi del poker, e dalla figura del giovane Cirk, ragazzo deciso a vendicare il suicidio del padre, anch’esso carceriere in Iraq. William è una creatura della notte, che nella sua “seconda” esistenza vive un annullamento consapevole, con la volontà di espiare le proprie colpe…

The Card Counter
USA 2021 (116′)

 VENEZIA – A dispetto della goffa traduzione operata dai titolisti italiani (che hanno voltato il giocatore di Oscar Isaac in un collezionista), The Card Counter (da noi: Il collezionista di carte) non è un thriller. E neppure, a ben vedere, un noir. Lo si potrebbe dire, con una classificazione che potenzialmente imbriglia qualunque prodotto sprovvisto di lieto fine, un film drammatico, ma si tratta di una scorciatoia che di fatto non ci aiuta a restituire le specificità entro cui si muove questo film peculiare.


    Vorremmo allora definirlo “un film di Paul Schrader”; più precisamente “un film dell’ultimo Paul Schrader”, intendendo con ciò un’opera che, sulla scia del precedente, bellissimo, First Reformed (2017), cresce e matura entro quella visione trascendentale della settima arte cui il regista dedicò, in giovane età, un memorabile saggio dal titolo Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer. Si tratta di un manifesto di poetica, che, analizzando le peculiarità dei tre maestri, individuava nella comunanza di alcune scelte stilistiche – tra cui il rifiuto del naturalismo e l’impronta giansenista delle inquadrature – la capacità di rinvigorire l’esperienza dello spettatore, introducendolo del pari a una realtà nuova, non convenzionale, dove ogni situazione si produce nella forma del rito. Non si tratta, si badi, di cinema religioso, ma sacrale; un cinema che bandisce ogni psicologismo e alla mediazione del simbolo sostituisce l’immediatezza di una azione ripetuta, di una scena spogliata di ogni orpello. Le inquadrature sono frontali, gli ambienti disadorni, i suoni prossimi al rumore della quotidianità.
Spesso alquanto ondivago nelle sue peregrinazioni cinematografiche – in una carriera che lega American Gigolò (1980) e Cane mangia cane (2016) – Schrader negli ultimi anni ha messo a punto uno stile vigorosamente asciutto, in costante dialogo col cinema di Robert Bresson e questa sua ultima fatica non si esime dalla conversazione. Il collezionista di carte è dunque, come il precedente e sulla scia del bressoniano Diario di un curato di campagna (1951), un film del tipo “a man sitting in a room” (un uomo seduto in una stanza). Quest’uomo, come il parroco di Bresson, tiene un diario e lo scrive innanzi ai nostri occhi in un corsivo pulito e rigoroso, mentre la voce fuoricampo ne legge alcuni stralci, immergendoci sin da subito nel suo mondo ossessivo e intransigente. In breve apprendiamo che è appena uscito di prigione, pratica assiduamente il gioco d’azzardo contando le carte e si accontenta di piccole somme di denaro, muovendosi di continuo da un luogo all’altro (“Vinci e te ne vai. Perdi e te ne vai”) e soggiornando in piccoli alberghi o motel, di cui si premura di rendere asettici e immacolati gli ambienti impacchettando ogni ingombro con lenzuola bianche come fosse un’opera di Christo.


Il gioco è per lui – che con piglio ironico si fa chiamare William Tell1 – non solo una fonte di guadagno, ma quella liturgia quotidiana che, col suo instabile compromesso tra la rassicurante prevedibilità dei gesti e gli accidenti della probabilità, contribuisce a tenere assieme quel poco che rimane del suo spirito in pezzi. Gli anni trascorsi come torturatore nel carcere di Abu Ghraib, infatti, gravano su di lui col peso di una colpa irredimibile, al punto che nessuna pena carceraria sarà mai sufficientemente duratura da mondarne i peccati. Consapevole di questo, William fa del mondo intero una prigione, chiudendosi in uno studiato isolamento sino ad annullare il proprio io in una maschera di impenetrabile ascetismo, cui Oscar Isaac dona, grazie a una mimica essenziale e una calibrata modulazione del parlato, una immagine monacale che non può non rammentare quella sublime di Alain Delon nel capolavoro di Jean-Pierre Melville Frank Costello faccia d’angelo (1967). L’interpretazione di Isaac è, di fatto, al di là delle consuete nozioni di buona o cattiva recitazione; essa suggerisce allo spettatore prima di tutto un atteggiamento e una certa difficoltà di essere al mondo.
L’incontro col giovane figlio di un suo ex collega, suicidatosi dopo la galera per l’insopportabile strazio di quella comune colpa, sembra produrre una crepa nel carattere coriaceo del protagonista. Il ragazzo vorrebbe vendicare il padre e propone a William di aiutarlo a catturare, torturare e uccidere il Maggiore Gordo (cui Willem Dafoe presta un volto sbilenco e orribilmente luciferino), responsabile dell’addestramento di tutta la truppa alle tecniche di “interrogatorio potenziato” e scampato poi a qualunque sanzione governativa. William riconosce, forse, nel ragazzo una possibilità di redenzione, uno squarcio (o “scissione” per dirla secondo la terminologia coniata da Schrader nel saggio giovanile) nella punitiva austerità della sua non-vita e si impone di aiutarlo, distogliendolo dai suoi propositi criminali, ma come una biglia che rotoli su un piano inclinato, la seduzione operata dal male procede la sua avanzata sino a irretire ogni anfratto del sistema nervoso.

Questa avanzata Schrader la dettaglia con una grammatica filmica che ha dell’inesorabile. Tutto il film è composto di inquadrature per lo più fisse (o in lieve movimento a seguire i personaggi) così da dettagliare i termini di uno spazio che non è più fisico, ma mentale, e ognuna di esse procede dalla precedente con un rigore di cui sentiamo tutto il peso e la necessità. Se ci fosse data l’opportunità di sottrarne una al computo non sapremmo davvero quale scegliere senza rischiare di minare la solidità dell’insieme. Persino le parentesi allucinate in cui un piano sequenza in fish-eye, deformando gli spazi e i contorni, ci introduce nei corridoi di quel girone d’inferno che fu Abu Ghraib ci paiono essenziali per come riverberano sui nostri nervi il battito dell’ossessione logorante che muove il protagonista.
Ed è con la citazione bressoniana di Pickpocket (1959) che Schrader si premura di chiudere un film memorabile e di scrittura sopraffina (si veda il monologo con cui William ribadisce al ragazzo ammutolito l’entità del suo tormento), culminante in una delle inquadrature più belle che la Settantottesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia ci abbia regalato..

Matteo Pernini – MCmagazine 69

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