Il gioco del destino e della fantasia

Tre storie incentrate sull’amore e i casi della vita: nella prima protagonista è una modella in crisi sentimentale; nella seconda una ragazza parla con un professore del libro che ha scritto; nella terza due vecchie conoscenti si rincontrano dopo molto tempo e ripensano al loro passato. Tre racconti che compongono un inno alla resilienza del femminile, alla sua capacità di comprendere, accettare e perseverare. 


Guzen to sozo
Giappone 2021 (121′)
BERLINO 71° – Orso d’argento Gran Premio della Giuria


In questo Il gioco del destino e della fantasia (in giapponese, semplicemente Gūzen to sōzō o Fantasia e caso), Hamaguchi accosta tre racconti brevi incentrati sulle peripezie sentimentali di alcuni personaggi femminili, innescate dalla ronde della sorte, ma in cui, come da titolo, anche le proiezioni immaginifiche della mente hanno un ruolo portante.
Nel primo capitolo Magia (o qualcosa di meno rassicurante), la giovane modella Meiko si rende conto che la nuova fiamma della sua cara amica Tsugumi altri non è se non il suo ex Kazuaki. Meiko decide di confrontarsi con quest’ultimo, per comprendere se la loro relazione è davvero finita.
In La porta spalancata, Nao è una donna sposata che viene convinta dal giovane amante Sasaki a prestarsi ad un piano di seduzione degno de Le relazioni pericolose, mirato a screditare il professore universitario Segawa, recente vincitore del prestigioso premio letterario Akutagawa e noto per lasciare la porta del suo ufficio sempre aperta. Infine, in Ancora una volta, Hamaguchi immagina un futuro prossimo in cui i sistemi informatici sono stati infettati da un virus che ha riportato l’umanità ad una vita pre-digitale. In tale contesto, Natsuko, ingegnera informatica disoccupata, torna a Sendai dopo molti anni passati a Tokyo, per una riunione di classe dove spera di rivedere un’amica molto speciale. La compagna però non si presenta. Il giorno dopo, in procinto di ripartire, Natsuko la incrocia per caso su una scala mobile e quest’ultima la invita a casa sua.Accomunati da ribaltamenti di prospettiva in cui le protagoniste riescono ad appropriarsi degli imprevisti del destino, anche allorché si profilano come avversi, i tre racconti di questa collezione compongono un inno alla resilienza del femminile, alla sua capacità di comprendere, accettare e perseverare. L’empatia dei personaggi, modellata con adesione nitida dalle splendide interpreti, si fonde a perfezione con la delicatezza di sguardo quasi rohmeriana di Hamaguchi, raggiungendo l’apice nella meraviglia rincuorante suscitata dal terzo, memorabile segmento. Un’opera di preziosa modestia e grazia profonda..

Paolo Bertolin – cinematografo.it

All’origine ci sono tre racconti dello stesso regista, Ryusuke Hamaguchi, ma il fantasma che si muove tra quei personaggi è quello di Cechov (che diventerà centrale nel successivo film del regista, Drive My Car, applaudito a Cannes), quel suo sguardo malinconico e distaccato capace di scolpire in maniera indelebile i palpiti e le esitazioni di tante «gente comune». Come sono appunto le protagoniste di Il gioco del destino e della fantasia, meritoriamente distribuito dalla Tucker Film dopo gli applausi a Berlino (Orso d’argento) e al Far East.
Tre storie, tre episodi – Magia (o qualcosa di meno rassicurante), La porta spalancata e Ancora una volta — accompagnati dalle note quasi esitanti di Träumerei di Schumann, per raccontare cosa? Quasi niente, verrebbe da dire se fossimo adepti di una qualsiasi forma di storytelling, ma è proprio questa specie di rarefazione dei sentimenti, questa (apparente) sospensione di giudizio, questa delicatezza (di tocco e di espressione) il regalo più grande di un film capace di stregare e scavare nelle nostre emozioni
Il primo episodio racconta di due amiche che tornando dal lavoro — un set fotografico — si scambiano confidenze sentimentali: una racconta l’incontro avuto con un ragazzo e del feeling che è subito scattato tra di loro; l’altra la interroga interessata, salvo scoprire, quando si sono lasciate, che il ragazzo incontrato dall’amica è il suo ex. Nel cui ufficio si presenta a sorpresa. Nel secondo episodio, una studentessa (che scopriremo essere già sposata) accetta di tendere una trappola, per conto di un collega di università e suo amante, al professore di francese che ha bocciato il ragazzo: lei deve cercare di sedurlo e registrare tutto per poi darlo in pasto ai giornali. Ma il tentativo di seduzione diventerà qualcosa di inaspettato. Nel terzo episodio, due giovani donne, che si incrociano su una scala mobile, credono di riconoscere l’una nell’altra una vecchia compagna di scuola, per poi confessarsi, durante il tè che prendono insieme, non solo il loro errore, ma anche la ragione per cui avevano voluto ingigantire quell’equivoco.


Tre storie che ruotano intorno alla casualità e agli equivoci che può procurare ma che diventano dei pretesti per scavare nei misteri dell’animo umano e dei suoi comportamenti. Lo si capisce benissimo nel modo — sempre sorprendente — con cui Hamaguchi chiude le sue tre storie: giocando con l’ambiguità combinatoria di una sliding door esistenziale, svelando come il caso può rimediare agli «errori» ma anche modificare le vite umane e infine offrendo alle «bugie» il modo di diventare più vere del vero. Ma tutto con una delicatezza e una semplicità che sorprende. La regia sembra nascondersi dietro le parole, quasi annullarsi per lasciare ai dialoghi la supremazia e lo spettatore viene facilmente catturato dalle frasi che lo portano dentro situazioni sorprendenti. Ma a guidare lo sguardo è sempre la direzione di Hamaguchi, essenziale, quasi «povera» (spesso giocata sul campo/controcampo) ma di una efficacia chirurgica. Quando il professore deve smontare la messa in scena della sua «tentatrice» il suo sguardo sembra rivolgersi direttamente allo spettatore (pur evitando lo spiacevole effetto dello «sguardo in macchina» che finirebbe per rompere l’incanto della finzione), come per sottolineare l’importanza di quello che sta dicendo. Quando le due donne del terzo episodio sembrano voler giustificare a forza di ricordi più o meno inventati le ragioni del loro incontro, la scena è ripresa dall’esterno della vetrata che illumina la stanza, ma quando quei ricordi diventano autentiche confessioni e lasciano il campo alle loro private verità, ecco che la macchina torna a inquadrarle dall’interno, cancellando lo «schermo» che divideva lo spettatore da loro, proprio per sottolineare l’autenticità delle loro parole. Proprio come i racconti di Cechov (o di Murakami, che si intreccerà con «Zio Vanja» in Drive My Car) dove la quotidianità delle situazioni o la semplicità del racconto nasconde una ricchezza di suggestioni e di sfumature assolutamente sorprendenti.

Paolo Mereghetti corriere.it

 

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