L’ultimo spettacolo

Peter Bogdanovich

Siamo in una piccola città del Texas, nel 1950. Il film racconta con delicatezza e partecipazione le storie sentimentali di alcuni ragazzi, poco prima dello scoppio della guerra di Corea. La fine del periodo della loro giovinezza è sancita dalla chiusura del cinemino in cui si ritrovavano.



The Last Picture Show
USA 1971 (118′)

Secondo lungometraggio del regista Peter Bogdanovich e probabilmente il suo miglior film in assoluto. Opera con più livelli di lettura, L’ultimo spettacolo è innanzitutto un grande esempio di realismo cinematografico americano, dove la semplice quotidianità della vita nella provincia texana degli anni ’50 diventa, senza colpi di scena e senza una vera e propria trama, una storia appassionante e coinvolgente, con personaggi vivi e indimenticabili e una cura per i dettagli calligrafica (clamorosa la colonna sonora, composta interamente da pezzi country trasmessi realmente dalle radio texane di quegli anni). Se si scava sotto questa piacevolissima superficie, tuttavia, si scopre un nucleo di grande nostalgia per un’epoca fatta di valori ormai impossibili da ritrovare: quella descritta nel film è infatti una generazione di ragazzi che ha schivato di un soffio gli orrori della Seconda guerra mondiale e che ancora doveva scoprire la Corea, una generazione sostanzialmente benestante, campione di un ribellismo dolce e innocuo, lontana anni luce dagli anni ’60 e poco interessata alla politica. Ecco dunque che la pellicola diventa la descrizione piena di lacrime di nostalgia per un segmento di tempo, un pacifico atollo di storia americana destinato a essere presto sommerso dai torbidi decenni successivi.

A suggellare questa operazione di amarcord, Bogdanovich (che era anche un noto critico cinematografico) inserisce una serie di piccoli riferimenti al cinema di Frank Capra e Howard Hawks, che viveva i suoi tempi migliori proprio nel primo lustro di quel decennio: la scena dell’ultimo spettacolo (che dà il titolo al film) del piccolo cinema di paese che proietta Il fiume rosso (1948) di Hawks è, in tal senso, la sequenza madre della pellicola e, probabilmente, la migliore dell’intera carriera del regista. Grande successo di critica. Lanciò una serie di talentuosi attori destinati ad avere fortune alterne: su tutti, Jeff Bridges. Nove nomination all’Oscar e due statuette vinte: a Ben Johnson e Cloris Leachmann rispettivamente come miglior attore e attrice non protagonisti.

longtake.it

…L’oggetto del contendere è sempre la stessa imperitura provincia americana. Qui la piccola città (Anarene) è colta sull’inizio degli anni cinquanta, un’epoca che sta suscitando negli Stati Uniti una nuova ondata di nostalgia. Peter Bogdanovich ha anticipato questo sentimento con un film in bianco e nero (fotografato da Robert Surtees) che si rifà esattamente ai modelli cinematografici di vent’anni fa e intona l’elegia di un’America forse scomparsa. Mentre si compie l’educazione sentimentale di un gruppo di ragazzi, minacciati dall’avvicinarsi della guerra di Corea, muore ad Anarene l’ultimo simbolo della leva pionieristica (l’attore è Ben Johnson, che Bogdanovich riesuma dai western militari di Ford); e non a caso il cinema, di cui il vecchio era proprietario, chiude per sempre i battenti con la proiezione di Il fiume rosso di Howard Hawks, che celebra distanziandoli i miti del secolo passato. L’ultimo spettacolo è un film sull’adolescenza di una generazione e sulla senilità di una nazione già simbolo di gioventù. Si direbbe l’opera di un Truffaut passato alla scuola di John Ford; e impone subito il nome di Bogdanovich come quello di un piccolo maestro del prossimo decennio.

Tullio Kezich – Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977


>>L’ultimo spettacolo + Texasville<

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