Saint Omer

Alice Diop

Tribunale di Saint-Omer. La giovane scrittrice Rama assiste al processo a Laurence Coly, una donna accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi, abbandonata all’arrivo dell’alta marea su una spiaggia nel nord della Francia. Ma mentre il processo va avanti, le parole dell’accusata e le deposizioni dei testimoni sconvolgeranno le certezze di Rama, e metteranno in discussione anche la nostra capacità di giudizio.

Francia 2022 (122′)
VE 79: Gran Premio della Giuria e miglior opera prima

   Opera prima di finzione di Alice Diop, affermata documentarista francese di origine senegalese, vincitrice al Festival di Berlino del 2021 nella sezione Encounters con il documentario Nous, Saint-Omer è un esordio nella fiction di altissimo respiro, che utilizza i codici del cinema giudiziario per spogliargli di ogni orpello e affrontare con notevole complessità una molteplicità di temi: dalla condizione femminile odierna ai fantasmi di una maternità liquida e misteriosa, passando per le tragiche conseguenze del colonialismo occidentale in Africa e gli strascichi irrisolti e malamente assorbiti dell’immigrazione sulle esistenze umane (il tema dell’acqua tiene insieme l’utero materno, l’incubo delle traversate, il proposito osceno di cancellare le tracce della propria prole). Incorniciato tra due riferimenti cinematografici molto importanti come Hiroshima Mon Amour (1959) di Alain Resnais, proposto in un’aula accademica e sublimato dal punto di vista della sceneggiatrice e scrittrice Marguerite Duras, e Medea (1969) di Pier Paolo Pasolini con Maria Callas, il film di Diop è caratterizzato da un rigore impressionante eppure appassionante nel mettere in scena un processo fluviale che rifiuta molto spesso la nozione di controcampo all’interno del montaggio: le riprese delle lunghe deposizioni si soffermano con nettezza mai asettica e giudicante sui singoli punti di vista elaborati dalle parti in causa, facendo filtrare tra le pieghe più recondite e sotterranee della messa in scena una struggente dose di elegante empatia e profondità antropologica. Il punto di vista della protagonista Rama, che assiste al processo contro una madre infanticida di origini senegalesi per scrivere un moderno adattamento del mito di Medea, coincide col nostro sguardo: l’adesione della regista alle percezioni fisiche e razionali e alla quotidianità del personaggio, ma anche alle sue incertezze e fragilità sulla propria maternità sempre sul punto di incrinarsi, è la chiave di volta per un’opera formalmente impeccabile e mai schematica, di straordinaria grazie nell’immortalare dei ritratti femminili sulla carta lontanissimi ma accomunati da un’analoga precarietà.

Fin dalle prime battute del processo sembra di assistere a una versione contemporanea degli antichi processi alle donne per stregoneria, con una messa in scena profondamente sensibile e ascetica nel rifuggire ogni scorciatoia per abbracciare la complessità di un caso difficilissimo da maneggiare con una lente e un approccio esclusivamente “occidentali”, specie se vessati da inqualificabili patenti di superiorità. Le stoccate al sensazionalismo più superficiale, ottuso e consolatorio dei media e della giustizia rispetto alla tragedia raccontata non mancano di certo, ma non ci sono risposte semplici e univoche in questo film densissimo di spunti di riflessione, a partire dall’imputata che si professa come un’assassina “a propria insaputa” e dal modo in cui ci si confronta da pari a pari, senza alcun intellettualismo ma con abbagliante nitore, con elementi filosofici, psicologici e culturali al contempo primitivi, ancestrali ed etnografici. Eccezionali le interpretazioni delle due attrici protagoniste, ma a stupire davvero è lo spessore epidermico delle immagini e dei tanti primi piani sempre a fior di lacrime, dai quali trapela un umanesimo che confligge magnificamente con la perizia tecnica mostrata e che nel finale trova anche una struggente via di fuga. In colonna sonora il brano Little Girl Blue di Nina Simone.

longtake.it

  …Ispirato al vero processo che nel 2016 si tenne nel tribunale di Saint-Omer, nel nord della Francia, nei confronti di una donna senegalese accusata di aver ucciso la figlioletta abbandonandola su una spiaggia con l’alta marea. Diop, che seguì le fasi di quel processo, immagina una scrittrice e docente universitaria, francese d’origine africana, che assiste alle sedute in tribunale per scrivere una versione aggiornata della Medea. Il mistero di una donna che diventa madre e distrugge la vita che ha portato in grembo, e prima ancora il mistero di una donna che resiste a ogni tentativo di essere ridotta a luogo comune (assassina, infanticida, bugiarda, immigrata, poveraccia), invadono le certezze della protagonista e di conseguenza le immagini del film. Le sequenze del processo, che occupano buona parte del racconto, con il loro passo cadenzato e straordinariamente controllato (piani fissi e quasi centrali, equilibri tra varie tonalità di colore, angolazioni e distanze calibratissime) generano una strana forma di solennità: vale a dire, quel passaggio dalla realtà bruta alla sublimazione poetica che la protagonista spiega durante una lezione su Marguerite Duras e Hiroshima mon amour. Diop segue le deposizioni in tribunale con una precisione geometrica, rimettendo in scena il processo senza fretta e con precisione, superando però il dato reale attraverso un attento gioco di montaggio: i primi piani dei parlanti sono seguiti dai piani di reazione di chi ascolta con tempi sfasati o stacchi inattesi; spesso la voce di chi parla arriva dal fuoricampo mentre le immagini mostrano volti inermi e attoniti. In questo modo le parole pronunciate nel tribunale di Saint-Omer riverberano oltre lo spazio e il tempo del film; superano il contesto della legge degli uomini ed entrano nel regno dell’anima. Parole che raccontano la frustrazione di una studentessa cresciuta in una famiglia colta e benestante e costretta a perdere ogni certezza; parole che ricostruiscono un amore infelice per un uomo maturo e codardo; parole che portano nella solitudine devastante di una gravidanza segreta, nella certezza di una possessione demoniaca, nella logica assurda di chi sceglie di affidare la propria bambina al mare, madre più grande e accogliente… Inevitabilmente, mentre il film prosegue con il suo passo solenne e magnetico, emerge sempre di più la sovrapposizione fra l’imputata assassina e la scrittrice protagonista, anche lei prossima a diventare madre e figlia di una madre spezzata, spaventata dalla possibilità di rifiutare la maternità, di trasformarsi in una nuova Medea (sullo schermo di un pc si vedono anche passaggi del film di Pasolini), di farsi invadere da pensieri mostruosi. La limpidezza dello stile di Diop rivela in questo modo una natura inevitabilmente didascalica – o meglio programmatica – come rivelano del resto il parallelo suggerito tra le donne francesi rapate a zero perché amanti dei soldati tedeschi e l’immigrata infanticida (dunque mostri svergognati dalla propria colpa) o la serie di primi piani di donne presenti al processo, mentre l’avvocato difensore, donna anche lei come la giudice, tiene l’arringa finale per chiedere l’assoluzione della propria cliente in nome del mistero insondabile e spaventoso della maternità…

Roberto Manassero – cineforum.it

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