El Conde

Cile 2023 (110’)

 VENEZIA – In una delle sequenze destinate a divenire letimotiv di questo film deforme – da intendersi nel duplice senso della sua struttura eccentrica e della deformità di cui si sostanzia la morale dei suoi protagonisti – e tutto di testa – ossia: marcatamente cerebrale – un minaccioso essere intabarrato getta in un frullatore cuori umani appena colti per trarne un liquore capace di donargli forza e giovinezza. Che il bevitore sia un vampiro, non v’è dubbio alcuno, ma il singolare abbassamento dell’immagine terrificante e consueta del mostro che azzanna la sua vittima a un gesto meccanico, da prodursi per mezzo di un elettrodomestico acquistabile nel vicino supermercato definisce in modo assai chiaro il tono dimesso che Pablo Larraìn ha inseguito per questo suo decimo lungometraggio.

 El Conde è, dunque, anzitutto un film imprigionato nella sua imagerie grotesque, ossia in quella sproporzione tra severità della forma e ridicolaggine del contenuto, che ci spinge a guardarlo come dall’esterno e a domandarci, con una punta di disagio, che cosa stia accadendo sullo schermo. In ciò esso si pone come la naturale prosecuzione dell’atteggiamento che aveva guidato il regista cileno in Neruda (2016), attenuandosi poi nei successivi Jackie (2016) e Spencer (2021), film che tuttavia condividono con quest’ultimo il desiderio di indagare la biografia di alcune figure centrali della Storia e del Potere novecenteschi nelle forme di una fantasia d’autore.
Così, dopo il poeta premio Nobel, l’iconica First Lady e la più celebre Principessa del Galles, Larraín fissa l’obiettivo della macchina da presa sul maggior rimosso della storia cilena, quell’Augusto Pinochet che l’undici Settembre 1973 fece bombardare il Palazzo Presidenziale, provocando la morte del presidente Salvador Allende, e instaurò una dittatura militare, precipitando la nazione in due decenni di repressione, violenze e ripetuti crimini contro l’umanità.
Di questa tremenda icona del potere fascista (che mai in vita ebbe a scontare le sue colpe e cui neppure poterono essere negate le esequie militari), Larraín fa ora spregio, tramutandolo in una creatura folcloristica, facendo del mostro che bramava il sangue dei suoi oppositori un mostro che di quel sangue letteralmente si nutre e che, costernato da un mondo esterno incapace di riconoscere il suo valore e la sua onestà, dopo aver inscenato la propria morte ufficiale, brama ora quella del corpo, così da lenire una stanchezza di oltre due secoli. Già, perché in uno slancio d’immaginazione il regista ci fa risalire – guidati in incipit da una educata voce femminile dall’impeccabile accento britannico – sino alla Francia di Luigi XVI, quando un giovane Claude Pinoche, ufficiale dell’esercito reale, scopre la sua natura vampiresca affondando i canini nel collo di una prostituta e la sua natura di mostro perseguitando senza scrupolo alcuno i rivoluzionari di ogni epoca, da quelli di Robespierre – da cui si trova a fuggire inscenando una prima volta il proprio funerale per evitare la ghigliottina – a quelli di Haiti, Russia e Algeria, in una rutilante esistenza d’odio e violenza, culminata infine nella presa del Cile di Allende.

Due cose si rammentano, di questo El Conde: l’idea e il colore. Del secondo vorremmo subito dire lodando il lavoro di Ed Lachman e la sua sinfonia di bianchi e neri, che, tenuti a bassa saturazione, impastano i quadri come di una melma grigia, in cui Pinochet-Nosferatu e la sua corte di maggiordomi sadici, mogli inviperite e figli ingordi – che mirano al suo tesoro, frutto di frodi ed estorsioni – si agitano come in sabbie pronte a soffocarli. Quanto, invece, al primo termine, se pure gli riconosciamo una certa inventiva, ci sovviene al contempo un pensiero dello scrittore Michele Mari, che nel 1990 dava alle stampe un libriccino gotico dal titolo Io venía pien d’angoscia a rimirarti, in cui, fingendo un diario redatto in stile ottocentesco, raccontava della licantropia del giovane Giacomo Leopardi. Richiesto di spiegare da dove gli fosse venuta un’idea tanto brillante, l’eccellente scrittore chiosava che il merito del libro era semmai nello stile, laddove l’idea sarebbe potuta venire a qualunque liceale un poco avvezzo ai voli della fantasia.
Ecco, allora, il sospetto che grava su El Conde, che l’idea, pur brillante, sia troppo esile e finisca, infine, per mangiarsi lo stile. Si ha difatti l’impressione che oltre l’allegoria vampiresca e la promessa di un film politico virato nei toni dell’orrore ben poco rimanga e l’idea stessa pare procedere più per accumulo che per vera ispirazione, tanto che quando a metà film fa il suo sontuoso ingresso la madre del vampiro-dittatore, tutto sembra risolversi in nient’altro che uno scherzo intelligente.
Se, dunque, l’idea di contaminare il racconto della Storia con una storia dell’orrore (un incrocio già vagamente approcciato nel precedente Spencer, di cui dicevamo due anni or sono dal Lido), virando l’amalgama nei toni del grottesco poteva dirsi uno spunto di valore, è ben chiaro come l’esito non proceda adeguatamente dalle premesse, ingenerando una sorta di prontuario allegorico sul Potere e il Capitale che fatica a imporsi alla nostra attenzione di spettatori e che inciampa, nella parte centrale, in una serie di didascalismi sul ruolo della chiesa cilena e sulle frodi del dittatore che finiscono col depotenziare la ricercatezza dei simboli inscenati.

Matteo Pernini – MCmagazine 86

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