Priscilla

Sofia Coppola

USA/Italia 2023 (113’)

 VENEZIA – Diceva Jean-Luc Godard, illuminando sui suoi debiti verso Roberto Rossellini, come il regista di Viaggio in Italia gli avesse mostrato – si legga: insegnato, dacché non v’è differenza agli occhi del maestro franco-svizzero – che “un film sono due persone in un’automobile” [1]. E altresì come un simile film potesse essere messo in piedi con due soldi (“Era bellissimo, pienamente rassicurante, come un messaggio di pace […] Roberto era un apostolo del cinema”). .

 Volendo parafrasare la ricetta, si sarebbe tentati di dire che per Sofia Coppola il cinema sia un un arredo elegante, una Cadillac Coupe de Ville, qualche rivista di moda e due o più soggetti inghiottiti in uno squisito catalogo del nulla (si pensi al paradigmatico Leone d’oro Somewhere (2010), con un padre e una figlia intenti a subire lo scorrere del tempo in un lussuoso albergo di Los Angeles).
Per quanto una simile descrizione possa apparire niente affatto lusinghiera, è in realtà appunto la cura dei dettagli, degli oggetti di scena, degli ambienti – la cui importanza rivaleggia con quella dei protagonisti – il centro del cinema della Coppola. Un cinema d’ambiente, in cui il piacere e l’interesse dello spettatore muovono anzitutto dalla qualità delle superfici lucenti che ne investono lo sguardo. Così è per i più alti risultati del suo cinema e così è anche per questo nuovo Priscilla, che narra della storia d’amore tra il re del rock and roll Elvis Presley e l’adolescente Priscilla Beaulieu.

Questo ottavo lungometraggio di Sofia Coppola è un ben riuscito esempio di cinema femminista (altro che Barbie), se mai sia possibile affibbiare questa complessa etichetta a un’opera cinematografica. Assai più, in ottica di paragoni festivalieri, anche del celebrato (con Leone d’oro) Povere creature! di Yorgos Lanthimos, in cui l’intelligente processo di empowerment della protagonista è svolto principalmente in sceneggiatura. Nel film della Coppola, invece, è l’immagine a guidare il nostro disagio e la natura al femminile di questo lucido e sagace biopic si estrinseca anzitutto nell’elezione di uno sguardo, la cui esplicita parzialità non si tramuta – come spesso accade – in sterile polemica, ma diviene una rigorosissima scelta di campo.
Si prenda l’incipit: Priscilla è una fanciulla acerba, una quattordicenne un po’ timida, che incalzata, seppure gentilmente, da un giovane soldato americano di stanza in Germania, accetta di partecipare a una festa di soli adulti a casa del venticinquenne “The Pelvis”, già all’epoca celebrato come una star. La Coppola pone i due protagonisti uno accanto all’altro, lei docile e minuta, lui solido e ingombrante; di più: sceglie, nella parte di Elvis, un attore alto quasi due metri, così da rimarcare visivamente la distanza tra i due, l’asimmetria di un rapporto che si denuncia improprio già a partire dalle proporzioni. Eppure nulla di illecito accade sullo schermo: Elvis è gentile, educato, la accompagna a casa entro l’ora stabilita, parla con il padre di lei per vincerne le comprensibili resistenze, si assicura che nulla possa offendere la serenità della ragazza.

Orfano di madre e lontano dalla sua casa, è indubbio come il cantante trovi nella dolcezza pudica di lei, nella sua ingenuità appassionata un’immagine di familiarità intimamente desiderata (“keep the home fires burning”, ossia: tieni acceso il focolare, le ripete spesso durante le tournée). Ecco, allora, la maestria della Coppola: mettere in scena un comportamento impeccabile su carta e poi capovolgerne il senso per mezzo delle immagini. Nel suo troneggiare fisicamente sulla ragazza, in quegli abbracci in cui essa pare svanire riconosciamo il simbolo di una posizione di potere, come l’eco di una persuasione sotterranea (e ancor più subdola perché inconsapevole) a cui l’iniziale innocenza di lei non è in grado di (né mira a) sottrarsi. E parimenti, una volta trasferitasi nella leggendaria villa di Graceland, sotto il legale tutorato del padre di Elvis, la prigione, sino a quel momento metaforica, si volge per Priscilla nel concreto di campi totali che la rappresentano in mezzo a stanze vuote. Di nuovo: non v’è traccia, nel racconto di una reale prigionia. Priscilla è libera di muoversi, di uscire, di frequentare le lezioni, eppure il disagio che avvertiamo è reale, generato dalla consapevolezza di come quel che si agita innanzi ai nostri occhi sia un rapporto sbilanciato, ossessivo, instabile, il cui controllo giace unilateralmente nella mani di lui.Come Marie Antoinette nell’omonimo film, anche Priscilla viene spogliata della sua identità – cambia il colore dei capelli, l’acconciatura, i gusti nel vestire – e per il tramite di questo rituale è immessa poi in una corte che la riverisce e le permette di scegliere tutto, tranne il proprio destino.
Che una storia così apparentemente opprimente e inscenata con lo stile secco e minimale che ha caratterizzato la regia della Coppola da Bling Ring in avanti, non nasconda, di fatto, note di allegrezza e serenità coniugale è l’ulteriore prova dell’intelligenza della sua autrice, capace di assumere un punto di vista sul mondo senza sentirsi obbligata a forzare la realtà in angusti e inestetici schematismi.
Si comprende, in questa ottica, quella che è forse la scelta più interessante del film: glissare sul momento topico della prima notte di nozze. Lungamente invocata dalla protagonista nel corso della storia – e, divenuta, così leitmotiv ai nostri occhi – accade infine fuoriscena, nella leggerezza noncurante di un taglio di montaggio, a significare come l’interesse della Coppola sia rivolto non al tema in sé, ma alla tensione che da esso ne deriva e che si riverbera sui nostri nervi di spettatori. Insomma, alla ricchezza del racconto anziché al solo messaggio.

In questo senso Priscilla si configura come un riuscito coming-of-age su una donna che scopre lentamente la necessità di emanciparsi dalle lucenti trappole della società patriarcale, dal bisogno disperato di questa di adattare i gusti e i comportamenti di lei a modelli predefiniti, di spingerla, insomma, a tradirsi con le lusinghe dell’amore, della protezione e col ricatto emotivo.
Sul finale, in virtù di quell’intelligenza dello sguardo che le va riconosciuta, la Coppola non manca di chiudere anche il destino di Elvis entro quella gabbia dorata che il mondo gli ha preparato: lo inquadra di schiena, silhouette fissata per sempre nella caratteristica posa inginocchiata a braccia aperte. I flash dello show business costituiscono, in fondo, per lui quella medesima “gabbia in cerca di un uccello” – per usare una celebre espressione di Franz Kafka – che lui è per Priscilla, ma a differenza della ragazza, egli non sarà mai in grado di liberarsene.

[1] Il riferimento di questa citazione di Godard è per l’appunto all’incipit di Viaggio in Italia, quando Ingrid Bergman e George Sanders, marito e moglie, sono ripresi a battibeccare in auto. La scena, un esempio di grande messa in scena fatta con due soldi e pochi mezzi, mostrò ai futuri maestri della Nouvelle Vague che il Cinema non necessitava di grandi produzioni e indicò loro quale strada percorrere per svecchiarne le forme ormai esauste.

Matteo Pernini – MCmagazine 86

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