Hokage

Shinya Tsukamoto

Al termine della Seconda guerra mondiale, in una città distrutta dalle bombe incendiarie, una donna gestisce un piccolo ristorante ma guadagna denaro solo prostituendosi. Nei dintorni del locale si aggira un bambino, e quando un soldato reduce dalle Filippine inizia a frequentare il ristorante, i tre sembrano quasi poter creare un nucleo famigliare. Ma la guerra ha lacerato ben più delle mura della città…

Shadow Of Fire
Giappone 2023 (96′)

 VENEZIA –  Hokage, come dichiarato dal regista di culto giapponese Shinya Tsukamoto, è in qualche modo una continuazione del discorso complesso ma necessario sulla guerra e la violenza iniziato nel 2014 con Fires on the Plain (Nobi) e sviluppato quattro anni più tardi con Killing (Zan). Se in Nobi Tsukamoto raccontava gli orrori e la carneficina della Seconda Guerra Mondiale attraverso la storia di un soldato giapponese nelle Filippine, Zan spostava l’attenzione sul rifiuto di combattere da parte di un samurai pentito del tardo periodo Edo.

 In Hokage invece Tsukamoto porta sullo schermo quello che la guerra lascia dietro di sé, le conseguenze cioè che qualunque conflitto bellico provoca, cicatrici fisiche e mentali, nelle persone che riescono a sopravvivere. In questo senso il titolo, che si traduce in Ombre di fuoco indica il riproiettarsi del fuoco distruttivo della guerra in forme spettrali, ma incarnate nel dolore dei corpi. Secondo lo stesso regista Hokage è un film-preghiera, dedicata a un mondo che si sta allontanando dalla pace, un’opera che non poteva non realizzare, nella congiuntura storica che stiamo vivendo. Ambientato poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale in una città che è stata per gran parte rasa al suolo da un bombardamento incendiario, il film si articola in tre momenti chiave: la prima parte, la più lunga, si sviluppa interamente in un interno, un piccolo ristorante, che porta visibilmente le tracce dell’apocalisse di fuoco che ha colpito la città e che, grazie alla fotografia magistrale di Tsukamoto che si sofferma sulla ruggine della casa, sulla calce scrostata, sugli angoli ammuffiti, rappresenta per sineddoche tutto il dolore, la sofferenza, ma anche la follia, che la guerra ha lasciato. Al suo interno, simile a uno spettro yurei, la proprietaria vende il proprio corpo per garantirsi la sopravvivenza e il volto intenso della bravissima attrice Shuri è lo specchio di tutte le angosce.

In questo luogo pochi si avventurano, tra questi un piccolo orfano ladruncolo, che non parla e un soldato reduce dalle Filippine, che ha scatti d’ira irrefrenabili o fissa per ore un punto nel vuoto. Il regista concentra la sua attenzione su questi pochi personaggi, facendoli diventare paradigmi dei disastri che ogni conflitto porta con sé. I tre sembrano quasi formare un nuovo nucleo familiare, come se l’orrore della guerra fosse in qualche modo superabile, nonostante le cicatrici che straziano i cuori. Ma la guerra, con il suo carico di detriti impossibili da smaltire riemerge come un fantasma che porta alla follia. La seconda parte funziona come una sorta di viaggio iniziatico del bambino con un misterioso uomo a cui serve la pistola di cui egli è in possesso, per compiere una vendetta. È attraverso gli occhi del giovane protagonista, che si muove tra fuoco e ombre, che Tsukamoto ci chiede di guardare alla devastazione, a quel poco che ancora rimane di umano: i trafficanti del mercato nero, le sagome dei reduci ormai impazziti nel buio di un sotterraneo o la terrificante panoramica dall’alto sulla città incenerita. Non esiste una via di uscita dalla guerra per gli esseri umani che le sono sopravvissuti. Si resta lì, fantasmi viventi, demoni disperati, pronti ad essere dimenticati in modo che possa scoppiare un nuovo conflitto.

L’epilogo disegna un arco che lo ricongiunge alla prima parte. Il bambino torna dalla donna, ormai preda di un male contagioso e si allontana definitivamente dalla locanda. Vaga per la città in macerie, incontra il soldato folle ormai ridotto a spettro e dopo un primo piano, che ricorda quello di Antoine Doinel alla fine de I 400 colpi, Tsukamoto lo lascia andare tra la folla, fino a che la sua immagine si dissolve. Intrecciando pietà e crudeltà, follia ed espiazione, redenzione e colpa il grande regista giapponese compone un tristissimo racconto sul Giappone del dopoguerra, quasi un incubo ad occhi aperti, che sconvolge e nello stesso tempo provoca lo sguardo dello spettatore, consapevole di trovarsi qui di fronte al Cinema nella sua espressione più alta, dove l’atto estetico, lo spirito umanista e la visione politica diventano un tutt’uno.
Rimane perciò incomprensibile la scelta dei selezionatori della Mostra di Venezia di collocare un film di straordinaria qualità artistica oltre che di valore politico molto attuale, come questo, nella sezione Orizzonti, non riconoscendogli un posto in Concorso, dove a pieno titolo avrebbe potuto competere con i vincitori.

Cristina Menegolli – MCmagazine 86

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